Tito Boeri ha messo in evidenza su “lavoce.info” le implicazioni elettorali del persistente bassissimo tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno[1]. Da un lato la proposta di un “reddito di cittadinanza” sarebbe stata la determinante principale del clamoroso successo elettorale del Movimento 5 Stelle nel Mezzogiorno, dall’altro l’estrema carenza di competitività del Mezzogiorno, determinante principale di bassi livelli di occupazione, produzione e reddito e di elevati disavanzi fiscali e negli scambi con l’esterno , avrebbe trascinato verso il basso i salari reali netti, e spinto verso l’alto l’età pensionabile, nelle regioni del Nord, per la necessità di compensare gli effetti sia delle importazioni nette sia del residuo fiscale negativo delle regioni del Mezzogiorno. Ciò avrebbe originato un grande consenso nelle regioni del Nord per le proposte della Lega di una drastica riduzione della pressione fiscale mediante una “flat tax” al 15% e di un abbassamento dell’età pensionabile mediante la revoca della “riforma Fornero”. L’incompatibilità finanziaria di queste proposte ha originato una “impasse” istituzionale da cui sembra molto difficile uscire preservando l’unità politica dell’Italia.
In realtà, la forte carenza di opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno sembra rappresentare un forte handicap anche per la proposta di un “reddito di cittadinanza” considerata isolatamente. Nelle intenzioni dei suoi proponenti questo dovrebbe rappresentare un sostegno temporaneo per accompagnare le persone nella ricerca di un lavoro; ma in presenza di una elevata disoccupazione strutturale in un’area in cui vive circa un terzo della popolazione italiana, esso quasi sicuramente si trasformerebbe in un sussidio pressoché permanente per un grandissimo numero di persone, assolutamente non sostenibile dal punto di vista economico e finanziario. Dal punto di vista dell’analisi economica la soluzione del problema avanzata da Tito Boeri, così come da tanti altri prestigiosi economisti (Alesina, Ichino, Giavazzi, ecc.) e istituzioni internazionali (Commissione europea, Banca centrale europea, OECD, ecc.) sarebbe chiara: una riduzione dei salari volta a stimolare la competitività delle attività produttive a mercato internazionale nelle regioni del Mezzogiorno[2], nello stesso modo in cui viene stimolata la competitività di tutti i paesi del mondo caratterizzati da una più bassa produttività[3]. L’aumento delle esportazioni nette, dell’occupazione e delle entrate fiscali che ne conseguirebbe nelle regioni del Mezzogiorno consentirebbe un aumento dei salari reali netti nelle regioni del nord dell’Italia[4] e renderebbe sostenibile il sistema pensionistico italiano in corrispondenza di una più bassa età media di pensionamento. Boeri sembra però prendere atto dell’impraticabilità politica di implementare differenziazioni retributive fra Nord e Sud dell’Italia sufficienti a compensare le differenze di produttività (dell’ordine di almeno il 30% in termini nominali, sia per le amministrazioni pubbliche sia per le imprese private), rassegnandosi quindi a questa “impasse” politico-istituzionale.
Una soluzione alternativa potrebbe, tuttavia, esserci per stimolare la competitività delle regioni del Mezzogiorno: una “svalutazione fiscale” volta a ridurre mediante sgravi fiscali il costo del lavoro per le imprese che producono nel Mezzogiono beni a mercato internazionale, e in particolare manufatti e servizi informatici[5]. Anche applicando gli sgravi fiscali alle attività produttive a mercato internazionale già presenti nel Mezzogiorno, il loro costo iniziale sarebbe contenuto considerata la loro modesta entità, e potrebbe essere finanziato con una quota dei fondi strutturali[6]. Nel lungo periodo gli sgravi sarebbero compensati dalle entrate fiscali generate dalle nuove attività a mercato esclusivamente o prevalentemente locali stimolate dall’aumento di reddito e occupazione nelle attività a mercato internazionale. L’ostacolo principale a una simile strategia a costo zero di stimolo alla competitività e alla crescita di reddito e occupazione nel Mezzogiorno sembra essere attualmente l’ostilità della Commissione Europea e, in particolare, della direzione sulla tutela della concorrenza. E’ su questo tema, e non tanto sull’austerità fiscale complessiva[7], che sarebbe utile per l’Italia aprire un confronto serrato con le Istituzioni europee.
[1] Tito Boeri, Racconto di due Italie, lavoce.info, 16 marzo 2018.
[2] La forte carenza di competitività delle regioni del Mezzogiorno è evidenziata sia dall’estrema debolezza delle esportazioni verso l’estero, sia, ancora più chiaramente, dal persistente forte disavanzo negli scambi di merci e servizi del Mezzogiorno rispetto agli altri paesi e regioni, sia dall’elevato tasso di disoccupazione e bassissimo tasso di occupazione. Nel 2017 le esportazioni del Mezzogiorno verso paesi esteri hanno rappresentato soltanto il 10,5% delle esportazioni italiane, a fronte di una popolazione pari a quasi un terzo di quella italiana (dati Istat, marzo 2018). Le importazioni nette del Mezzogiorno (corrispondenti grosso modo al “residuo fiscale”) sono state pari in media nel triennio 2013-2015 a circa il 18% del PIL del Mezzogiorno e a circa l’8% del PIL del Centro-Nord, nonostante un avanzo del conto corrente complessivo della bilancia dei pagamenti internazionali dell’Italia pari a circa l’1% del PIL (Banca d’Italia, Economie regionali n. 23, novembre 2017, pag. 105, OECD, Economic outlook, novembre 2017, pag. 320). Nel 2016 il Mezzogiorno ha registrato un tasso di disoccupazione di quasi il 20% a fronte di tassi di disoccupazione dell’8% nel Nord Ovest e del 7% nel Nord Est, e un tasso di occupazione del 43,4% a fronte di tassi di occupazione del 65,4% nel Nord Ovest e del 66,5% nel Nord Est (Banca d’Italia, Economie regionali n. 23, novembre 2017, pag. 97). Gli squilibri del Mezzogiorno rappresentano quindi un esempio (estremo) da manuale di squilibri che richiedono per essere superati una svalutazione reale, secondo la magistrale analisi di James Meade (The Balance of Payments, 1951), premio Nobel per l’economia nel 1977 insieme a bertil Ohlin.
[3] Per esempio, secondo le stime di Ecostat, nel 2016 il costo medio per le imprese di un’ora di lavoro è stato di 27,8 euro in Italia, 33 euro in Germania, 8,6 euro in Polonia e 10,4 euro in Slovacchia. Il costo del lavoro molto più basso in Polonia e Slovacchia rispetto a Germania e Italia è stato appena sufficiente a mantenere in equilibrio competitivo questi paesi. In effetti, nel 2016 il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero ha registrato avanzi dell’8,3% del prodotto interno lordo in Germania e del 2,7% per l’Italia, a fronte di disavanzi dello 0,3% del PIL per la Polona e dell’1,5% per la Slovacchia (OECD, Economic Outlook, novembre 2017).
[4] Sia Mill, a proposito dei trasferimenti dall’Irlanda vero l’Inghilterra, sia Keynes per le riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo la prima guerra mondiale, sostennero che i trasferimenti internazionali o interregionali hanno un doppio onere (double burden) per chi li effettua: l’onere di dover rinunciare alle risorse trasferite, e in aggiunta l’onere del peggioramento di ragione di scambio (che comporta una riduzione dei salari reali) necessario per l’avanzo negli scambi con l’estero richiesto per finanziare il trasferimento. Una svalutazione fiscale in grado di stimolare una significativa crescita dell’occupazione, del reddito, e quindi anche delle entrate fiscali, nel Mezzogiorno consentirebbe di ridurre i trasferimenti dal Nord dell’Italia, con effetti doppiamente positivi sulle retribuzioni reali nette.
[5] In Economia internazionale una svalutazione (reale) consiste in una riduzione del costo del lavoro in un paese o regione rispetto ad altri paesi o regioni. Essa viene implementata di solito mediante una svalutazione del tasso di cambio nominale della moneta nazionale in termini di monete estere a parità di salari nominali, oppure mediane una riduzione dei salari nominali, a parità di tasso di cambio. Se nessuna di queste due modalità è politicamente implementabile (come nel caso del Mezzogiorno) effetti simili possono essere ottenuti mediante una riduzione degli oneri fiscali sul lavoro (in particolare nelle produzioni a mercato internazionale) finanziata mediante un aumento delle imposte indirete sui consumi (in particolare l’IVA). Nel caso del Mezzogiorno il finanziamento eventualmente necessario nel breve periodo potrebbe avvenire mediante una riduzione degli sprechi nella gestione dei fondi strutturali.
[6] Al riguardo si veda, per esempio, Roberto Perotti, “Sacrifichiamo i fondi strutturali per ridurre il cuneo fiscale”, la voce.info, 27 febbraio 2014. In questo articolo, Perotti, sostiene che molti dei soldi che l’Italia riceve dalla UE “non servono a niente, anzi sono dannosi”. Si veda anche: Roberto Perotti e Filppo Teoldi, “Il disastro dei fondi strutturali europei” e-book de lavoce.info, luglio 2014. Analoga valutazione è stata espressa sul Corriere del Mezzogiorno da Nicola Rossi in un articolo su “I professionisti della coesione”. Mario Monti, invece, da Commissario europeo, espresse valutazioni negative sugli sgravi fiscali e giudizi positivi sui fondi strutturali (per esempio: “Monti boccia gli sgravi fiscali al Sud”, Corriere della Sera, 29 marzo 2000, pag. 25).
[7] Per quel che riguarda i vincoli di bilancio, sembra essere sopravvalutata l’importanza delle raccomandazioni della Commissione europea. In realtà, l’effetto negativo principale che deriverebbe probabilmente da una politica fiscale meno austera sarebbe l’aumento del tasso d’interesse sul debito pubblico italiano sui mercati finanziari (“spread”).