Questo articolo è una sintetica rassegna della lettura economica sulle politiche economiche implementate in Italia per la riduzione dei divari regionali in Italia a partire dal secondo dopoguerra. Gli studi empirici non giungono a risultati univoci, anche se sembra emergere un impatto positivo dei fondi strutturali europei sul PIL e, in misura minore, sull’occupazione. La conoscenza dei punti di forza e di debolezza di tali politiche è importante per l’Italia che potrà disporre nei prossimi anni dei fondi del PNRR in aggiunta ai consueti fondi della politica di coesione per ridurre i divari territoriali. [Scarica il PDF]
1 Introduzione
Se da un lato l’integrazione europea ha creato notevoli vantaggi per le imprese e per i cittadini europei, non è altrettanto certo che questi benefici si siano distribuiti uniformemente nelle società europee (Sapienza, 2000). D’altra parte, in un mercato unico, soprattutto con una moneta unica e in assenza di una politica fiscale unica, è necessaria l’assenza di marcati divari tra gli Stati membri (De Grauwe, 2013), nonché al loro interno. In effetti, l’articolo 158 (ex articolo 130 A) del Trattato istitutivo della Comunità Europea (Parte III – Titolo XVII) stabilisce che: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità, questa sviluppa e persegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica e sociale”.
In risposta alla crisi pandemica l’Unione Europea ha varato nel 2020 il programma Next Generation EU, un piano di circa 807 miliardi di euro[1]. All’interno di tale programma rientra il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede per l’Italia investimenti finanziati dall’Unione Europea pari a 191,5 miliardi (di cui 68,9 a fondo perduto e 122 a prestito), da realizzare entro il 2026. Le ingenti risorse stanziate e l’ammontare delle risorse che vanno al Mezzogiorno (in linea di principio il 40%), hanno riproposto il tema sulla efficacia delle politiche pubbliche per la riduzione dei divari territoriali in Italia. In questo scritto si propone una breve analisi della letteratura empirica sull’impatto di queste politiche in Italia, ponendo l’accento sulla politica di coesione UE. In effetti, dopo la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno avvenuta nel 1992, i fondi strutturali europei rappresentano il principale strumento di policy per ridurre i divari territoriali in Italia. D’altra parte, pur essendovi importanti differenze tra la governance del PNRR e quella della politica di coesione, l’analisi di quest’ultima è di fondamentale importanza per meglio comprendere le potenzialità e le problematiche degli ingenti stanziamenti varati in risposta alla crisi pandemica.
Lo scritto si articola nel modo seguente. Dopo una disamina della natura e dell’evoluzione dei divari territoriali in Italia, si propone un breve excursus storico sulle politiche per la riduzione di questi divari che si sono susseguite in Italia a partire dal secondo dopoguerra. Segue una rassegna dei principali studi effettuati su queste politiche, dedicando particolare attenzione alla politica di coesione UE. Alcune considerazioni conclusive riassumono i punti di forza e di debolezza delle politiche prese in esame e mettono in evidenza le sfide principali che l’attuazione del PNRR e le altre misure di politica dovranno affrontare nei prossimi anni.
2. I divari territoriali in Italia
I divari territoriali in Italia, in particolare il dualismo Nord-Sud, sono una costante della economia italiana. Il principale indicatore con il quale si misurano tali divari è il PIL pro capite. Carrascal-Incera et al. (2021), misurando attraverso l’Indice di Theil la disparità interna dell’Italia per un lungo periodo (dal 1910 al 2011) e confrontandola anche con quelli di altri Paesi Europei, ha mostrato come i divari territoriali sono aumentati sino al 1950, per poi ridursi sino al 1970 e rimanere pressoché stabili nel tempo.
Significativi sono i dati elaborati dalla Svimez (2020) per il periodo di tempo dal 1995 al 2018, ossia dalla fine dell’intervento straordinario (la Cassa chiude nel 1992) sino a due anni prima della pandemia. Da tali dati (Tabella 1) si evince che il divario, in termini di PIL pro capite, si è ridotto dal 1995 al 2009 anno in cui ha avuto inizio la crisi dei debiti sovrani, passando da 55,6 a 58,1 per poi tornare nel 2019 a 55,1, un livello di poco inferiore a quello del 1995 (55,6). Su tale divario ha influito negativamente soprattutto una riduzione del tasso di occupazione del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.
Altri due fatti stilizzati sono importanti da porre in evidenza. Il primo (v. Tabella 2) è che tutte le regioni italiane, anche quelle del Centro-Nord, hanno perso posizioni nella graduatoria del PIL delle regioni europee.
Il secondo fatto stilizzato è la riduzione degli investimenti. Dal 1970 vi è stata una tendenziale riduzione del vantaggio del Mezzogiorno nell’accumulazione di capitale. Nel 1970 il rapporto investimenti sul PIL per il Mezzogiorno era pari a circa il 35%, mentre per il Centro Nord era poco più del 26% (Figura 1). Durante lo scorso decennio, i due tassi si sono allineati verso il basso e alla fine del decennio il tasso di accumulazione del Centro Nord è stato, anche se di poco, superiore a quello del Mezzogiorno (Torrini, 2021). Il calo ha riguardato sia gli investimenti privati (Figura 2) che quelli pubblici (Figura 3). Dal 2007 al 2018 gli investimenti privati, misurati sui dati Cerved disponibili a livello di impresa, si sono più che dimezzati nel Mezzogiorno. Anche la spesa in conto capitale e gli investimenti in opere pubbliche si sono ridotti dal 2005 al 2018, del 40% circa, una riduzione simile a quella verificatasi per gli investimenti fissi lordi (Accetturo, 2021).
3. Una prospettiva storica
Al fine di valutare l’impatto della politica di coesione è interessante ripercorrere a grandi linee le tappe fondamentali delle politiche pubbliche per la riduzione dei divari territoriali nell’Italia Repubblicana dagli anni ‘50 in poi.
Nel secondo dopoguerra la politica di riduzione dei divari in Italia ha vissuto diverse fasi (Martinelli, 2020). Essa è iniziata nel 1950 con l’intervento straordinario nel Mezzogiorno diretto dalla Cassa per il Mezzogiorno. Quest’ultima ha avuto la massima spinta propulsiva fino agli inizi degli anni ’70, anche se è durata fino al 1992. Analizzare la Cassa per il Mezzogiorno è oggi fondamentale, perché quell’esperienza ha coinciso con l’unica fase di avvicinamento dell’economia del Mezzogiorno a quella del resto del Paese, e ha favorito anche la realizzazione del «miracolo economico italiano», quando il Mezzogiorno ha contribuito in maniera significativa a elevare il tasso di crescita dell’Italia nel suo insieme. Felice e Lepore (2013) mostrano come vi sia una chiara corrispondenza fra il periodo di maggiore operatività ed efficacia della Cassa e la crescita economica nel Mezzogiorno. Questa corrispondenza dipende soprattutto dalle modalità con cui si sono attuati gli interventi della Cassa fino agli anni ’60, cioè irrobustimento delle infrastrutture e creazione di un’industria moderna e produttiva
Nel periodo successivo, coinciso in parte con la crisi degli anni ’70, si è vista l’operatività della Cassa svanire in una molteplicità di interventi a pioggia, di mero sostegno al reddito, senza più una visione strategica. Peraltro, secondo D’Adda e de Blasio (2017), lo spartiacque decisivo è costituito dalla legge 717 del 1965, in base alla quale la struttura di governance della Cassa subì importanti cambiamenti. Da un governo tecnico e centralistico, ispirato alla Tennessee Authority Valley e caratterizzato da una forte autonomia rispetto alle pressioni politiche, si passa a un assetto in cui le istanze politiche locali (anche attraverso il ruolo delle regioni, istituite nel 1970) divennero sempre più influenti, e i benefici economici della Cassa si affievoliscono.
Negli anni ’80, l’intervento della Cassa è andato perdendo di intensità, ma senza smarrire la connotazione assistenziale che aveva acquisito nel decennio precedente. Alla dismissione della Cassa seguono due fasi problematiche per il Mezzogiorno:
- il periodo della “Programmazione negoziata” (1996-2006), caratterizzato da una politica place-base governata dal basso
- il periodo di “Abbandono del Sud” (2006-2011) governato dalla convinzione che gli interventi politici nel Mezzogiorno fossero intrinsecamente inefficaci.
Diversi studi che valutano l’efficacia della “Programmazione negoziata” (patti territoriali, contratti di programma, Legge 488/1992) ne evidenziano una performance insoddisfacente, soprattutto in relazione al miglioramento della produttività (si vedano Bronzini e de Blasio, 2006; Bernini e Pellegrini, 2011; Accetturo e de Blasio, 2012; De Castris e Pellegrini, 2012; Andini e de Blasio, 2014; Cerqua e Pellegrini, 2014). La mancanza di una governance efficace e la frammentazione degli interventi sono spesso evocati negli studi citati qui sopra come cause dei risultati poco brillanti della “Programmazione negoziata”.
Infine, durante il periodo dell’“Abbandono del Sud” una cospicua quantità di risorse finanziarie, precedentemente destinate al Sud, sono stati riorientati alle regioni del Centro-Nord (Prota e Viesti, 2012; Marinuzzi e Tortorella, 2017). Non esistono in letteratura analisi specifiche dell’impatto macroeconomico di questa riduzione dei fondi destinati al Mezzogiorno. Tuttavia, dai dati della Tabella 1 sembra lecito concludere che questo ridimensionamento delle risorse non sia stato compensato da una razionalizzazione nel loro uso e da una loro conseguente maggiore efficacia.
4. La letteratura empirica recente
Negli ultimi decenni il dibattito sulla efficacia delle politiche di coesione ha riguardato principalmente l’impatto dei fondi strutturali europei sulla riduzione dei divari territoriali (si vedano a questo proposito anche Coppola e Destefanis, 2020). A tal fine sono stati utilizzati nella letteratura empirica differenti metodologie, applicate a banche di dati pure molto diverse tra loro per variabili, unità territoriali e periodi temporali presi in considerazione.
Un primo gruppo di studi esamina il ruolo dei fondi strutturali europei utilizzando l’analisi di dati di panel, e trova risultati per lo più positivi di questi fondi sulle variabili di interesse.
Lo studio di Percoco (2005), è uno dei primi lavori empirici sull’impatto dei fondi strutturali europei in Italia. In esso si analizzando le dinamiche di sei regioni del Mezzogiorno per il periodo di programmazione 1994-1999. Il risultato ottenuto è che gli effetti dei fondi strutturali europei sul PIL sono sostanzialmente positivi anche se eterogenei. Anche Coppola e Destefanis (2007, 2015), in due diversi lavori, rilevano un impatto positivo dei fondi strutturali europei, che però si assottiglia per accumulazione del capitale e occupazione, sino a scomparire negli anni più recenti. Il loro studio si basa su per un periodo temporale più lungo, dal 1989 al 2006, e comprende tutte le regioni italiane. Al contrario in Aiello e Pupo (2009) l’impatto dei fondi strutturali europei, per il periodo 1996-2007, è debole sul PIL pro capite e nullo sulla produttività del lavoro. Tuttavia, questo impatto è maggiore nelle regioni del Mezzogiorno. Più eterogenea è l’evidenza empirica in Coppola et al. (2020), i quali analizzano congiuntamente l’impatto sul PIL pro capite delle venti regioni sia dei fondi strutturali europei che di alcuni fondi nazionali dal 1994 al 2013, tenendo conto altresì del meccanismo di assegnazione dei fondi e dell’incidenza del contesto socioeconomico regionale. I fondi strutturali europei hanno un impatto positivo, mentre per i fondi nazionali l’impatto è significativo solo per i sussidi di parte corrente alle imprese. Solo i fondi nazionali sono influenzati dalla capacità di governance delle regioni. Arbolino et al. (2020) quantificano gli effetti della politica di coesione per il periodo 2007-2013, stimando l’impatto congiunturale di breve periodo nei mercati del lavoro regionali e trovano che la politica di coesione, sebbene sia una politica di natura strutturale, ha effetti positivi di natura anticiclica ed è condizionata altresì in misura positiva dal livello della qualità delle istituzioni regionali. Destefanis et al. (2020), utilizzando un modello VAR bayesiano, stimano i moltiplicatori di diverse tipologie di spesa pubblica nelle 20 regioni amministrative italiane nel periodo 1994-2016. I risultati evidenziano che i fondi strutturali europei, rispetto agli altri tipi di spesa pubblica, forniscono i moltiplicatori più elevati. Un’analisi esplorativa della distribuzione dei moltiplicatori tra regioni e tipi di spesa suggerisce che i valori regionali dei moltiplicatori sono associati positivamente alla quantità di risorse inutilizzate e alla dimensione della regione.
Vi è poi un insieme di lavori, prevalentemente di autori della Banca d’Italia, nei quali si trova un impatto dei fondi strutturali europei limitato o nullo.
Barone et al. (2016), studiando la dinamica del PIL pro capite della sola regione Abruzzo, attraverso un’analisi controfattuale, giungono al risultato che i fondi strutturali europei producono effetti positivi di carattere sostanzialmente passeggero, poiché dopo che l’Abruzzo non ha beneficiato più dei fondi strutturali europei per la convergenza dopo il 2000, il PIL pro capite della regione non è cresciuto come nel periodo precedente. Ciò rappresenta, per gli autori, l’evidenza che i fondi strutturali europei non sono in grado di attivare un processo di crescita endogena. Anche Ciani e De Blasio (2015) stimano un impatto alquanto limitato dei fondi strutturali europei su occupazione, popolazione e prezzi degli immobili dei Sistemi Locali del Lavoro del Mezzogiorno per il periodo 2007-2013, mentre lo studio di Albanese et al. (2019) mostra, sulla base dei dati relativi a imprese del Mezzogiorno per il periodo 2007-2015, l’inefficacia del Fondo di Sviluppo Regionale sulla produttività totale dei fattori stimata a livello di singola impresa, a eccezione però della quota spesa in infrastrutture.
Altri recenti lavori applicano il metodo della Regression Discontinuity Design, considerando come discontinuità geografica i confini amministrativi tra i comuni appartenenti alle regioni Obiettivo 1 della politica di coesione UE e quelli (confinanti) rientranti nelle altre regioni. In questi studi i risultati ottenuti sono di carattere abbastanza eterogeneo. In Giua (2017), dove la variabile di risultato è la variazione dell’occupazione intercorsa (su dati censuari) tra il 1991 e il 2001, emergono due importanti evidenze empiriche. La prima è che la politica regionale europea ha un effetto positivo sulla dinamica dell’occupazione nelle regioni Obiettivo 1, mentre la seconda è che non c’è alcun effetto di spiazzamento ai danni dell’occupazione nelle altre regioni. L’impatto è particolarmente positivo per alcuni settori chiave (industria, costruzioni, commercio al dettaglio, turismo). Tuttavia, in un articolo più recente, Crescenzi e Giua (2020) trovano che gli effetti positivi sull’occupazione tratti dall’appartenenza alle regioni dell’Obiettivo 1 non sussistevano più in Italia a seguito della recessione iniziata nel 2007. Albanese et al. (2021) presentano stime dell’efficacia dei fondi strutturali europei su alcuni indicatori di benessere regionale per il periodo 2007-2013. Essi trovano un impatto molto modesto dei fondi sull’occupazione giovanile, sul tasso di attività femminile e sull’istruzione terziaria. Inoltre, affermano che gli effetti significativi dei fondi strutturali europei su PIL e occupazione sono influenzati da qualità delle istituzioni, capitale umano e densità urbana. Infine, Cerqua e Pellegrini (2021) stimano l’impatto di tutti i progetti pubblici sullo sviluppo locale per il periodo 2007-2015. I risultati delle politiche di coesione sono prevalentemente nulli per il reddito locale (dati di fonte Ministero dell’Economia e delle Finanze) e positivi per il numero delle unità locali e i loro addetti (dati di fonte Registro statistico delle imprese attive ASIA-Istat).
5. Considerazioni conclusive
Esprimere un giudizio sulla relazione tra politiche pubbliche e divari territoriali in Italia non è cosa semplice. Gli studi empirici non giungono a risultati univoci, anche se, con vari caveat, emerge un impatto dei fondi strutturali europei sul PIL e, in misura minore, sull’occupazione. Risulta difficile trovare ragioni sistematiche di questi differenti risultati anche perché essi sussistono tra lavori simili per metodologia adottata, e non è possibile chiarire se l’evoluzione nel tempo di PIL e occupazione dipenda da una diversa efficacia nel tempo della politica. Alcune possibili spiegazioni, che forse non hanno ancora trovato la meritata attenzione in letteratura, riguardano:
- il trattamento dinamico dei dati di spesa (si vedano per maggiori dettagli Coppola et al., 2020; Coppola e Destefanis, 2020) e la complessità dei legami dinamici tra PIL e occupazione, che era stata peraltro messa in evidenza da Percoco (2005);
- la relativa minore efficacia dei fondi strutturali europei sull’occupazione potrebbe essere ascritta al fatto che il sostegno all’occupazione riguarda soprattutto il Fondo Sociale Europeo, le cui modalità di governance differiscono da quelle degli altri fondi (per esempio in termini di grande frammentazione dei progetti)[4];
- l’utilizzazione di banche dati comunque molto eterogenee, sia nell’ambito macro che microeconomico.
Peraltro, un filo rosso dell’analisi è la qualità istituzionale, che sembra essere da molti riscontri inferiore nelle regioni del Mezzogiorno (si veda a questo proposito anche il recente studio di Quintieri e Stamato, 2021). Secondo molti dei contributi presi in esame nei precedenti paragrafi la qualità istituzionale delle regioni è fondamentale nel determinarne la capacità di governance dei fondi, e quindi la efficacia di questi ultimi. È appunto in questo senso che D’Adda e de Blasio (2017) evidenziano i pericoli della regionalizzazione della Cassa del Mezzogiorno avvenuta attorno al 1970. Spostando le capacità di spesa in mano alle regioni, anche quelle caratterizzate da una governance più debole, si sarebbero create le condizioni per un affievolimento dell’efficacia dell’intervento pubblico. Peraltro, le relazioni tra qualità istituzionale ed efficacia della spesa non possono essere ridotte alla dimensione della regionalizzazione. Coppola et al. (2020) notano che le modalità di governance dei fondi UE sembrano loro garantire maggiore efficacia rispetto ai fondi finanziati a livello nazionale. In particolare, il principio di partenariato, che coinvolge nella gestione dei fondi le istituzioni europee assieme ad attori nazionali e locali, e la programmazione pluriennale indebolirebbero il legame tra qualità istituzionale locale e fondi strutturali europei (legame invece molto forte per i fondi finanziati a livello nazionale).
In uno studio incentrato sulle determinanti della capacità di spesa (e non del suo impatto), Crescenzi et al. (2021) trovano un ruolo importante per entrambi i fattori messi in luce qui sopra. Secondo Crescenzi et al., una tempestiva attuazione dei programmi di spesa richiede che, nella loro progettazione, i governi nazionali si colleghino direttamente con gli stakeholders locali all’interno di un quadro di coordinamento allestito dalle istituzioni europee. Il coinvolgimento delle regioni e altre istituzioni locali potrebbe poi avere luogo al momento dell’implementazione di questi progetti. Questi requisiti sembrano essere sostanzialmente accolti dal decreto-legge n. 77 del 31 maggio 2021, con cui è stata definita la governance del PNRR. È stata istituita una Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e affiancata da una Segreteria tecnica. Le Regioni, le Province autonome e gli enti locali dovranno invece agire di conserva con le Amministrazioni centrali per mettere in atto operativamente gli interventi del PNRR.
In conclusione, gli ingenti fondi che saranno impegnati nei prossimi anni forniscono la base per una ripresa degli investimenti pubblici la cui rilevanza, soprattutto per l’economia del Mezzogiorno, non può essere sottovalutata. In particolare, i finanziamenti a Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo nell’ambito del PNRR (49,86 miliardi, pari al 21,21% del totale) offrono un’occasione forse irripetibile di colmare il divario digitale dell’Italia. Quest’ultimo è uno dei fattori fondamentali alla base della “trappola dello sviluppo intermedio” (costi più alti che nei paesi dell’Est, produttività più bassa che nei paesi del Nord, come suggerito in Viesti, 2019) che sta attanagliando le regioni italiane, non solo del Sud.
La governance del PNRR appare in linea di principio allineata ai prerequisiti per un efficace uso di queste risorse. Tuttavia, se la risposta al problema della qualità istituzionale necessita una rimodulazione della governance pubblica e un ri-accentramento delle decisioni di spesa, è fondamentale che nuove competenze, tecniche e gestionali vengano immesse nella Pubblica Amministrazione. In questo senso, il Decreto-Legge n. 80 del 9 giugno 2021, volto ad assumere a tempo determinato nella PA gli esperti e i funzionari che lavoreranno al PNRR e a conferire incarichi di consulenza con procedure più rapide, è un passo fondamentale, che dovrà però essere ulteriormente esteso e potenziato. Nel considerare gli effetti di questo aumento delle competenze, e più in generale del PNRR, sarà fondamentale il ruolo del Servizio centrale per il PNRR, istituito presso la Ragioneria Generale dello Stato, per le attività di monitoraggio e rendicontazione. Tuttavia, il monitoraggio dovrebbe essere implementato in quadro di analisi che tenga conto in modo adeguato della dimensione temporale, spesso lunga, degli effetti di uno sforzo di capacity building (è d’uopo ricordare a questo proposito non solo il già citato lavoro di Canova e Pappa, 2021, ma vari studi di analisi controfattuale delle politiche, a partire da Hotz et al., 2006).
D’altra parte, la sfida della “trappola dello sviluppo intermedio” pone la problematica delle capacità gestionali in un ambito che va al di là della governance pubblica. Il fallimento delle imprese italiane nel trarre vantaggio dagli sviluppi dell’ICT è da ascrivere in gran parte a pratiche di management inefficienti, anche nel settore privato (Schivardi e Schmitz, 2019), che dovranno essere adeguatamente fronteggiate e superate. Anche in questo caso, l’applicazione di opportune politiche economiche dovrà essere valutata nell’ambito di un quadro temporale sufficientemente ampio.
Note:
[1] The EU’s 2021-2027 Long Term Budget and Next Generation EU https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/d3e77637-a963-11eb-9585-01aa75ed71a1/language-en.
[2] Elaborazioni su dati Cerved (campione a scorrimento). La linea blu tratteggiata riporta i dati del Centro Nord riproporzionati utilizzando struttura delle imprese del Mezzogiorno per classe dimensionale. La linea arancione riporta i dati del Centro Nord riproporzionati utilizzando struttura delle imprese del Mezzogiorno per settore.
[3] Elaborazioni su dati Istat e Conti pubblici territoriali. La spesa in conto capitale include anche i trasferimenti in conto capitale a imprese e famiglie.
[4] A questo proposito però bisogna notare che, utilizzando un panel VAR bayesiano per le regioni dell’UE, Canova e Pappa (2021), trovano che gli effetti del Fondo Sociale Europeo, inizialmente trascurabili, diventano molto più rilevanti nel lungo periodo. Come già detto nel testo, questo rimanda a una considerazione molto attenta della struttura dinamica dei dati nell’analisi dei fondi strutturali europei.
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