Oltre un welfare paternalistico. Quali traiettorie ri-disegnare per affrontare il complesso e articolato tema delle politiche di protezione sociale?
Nell’ambito delle politiche di welfare da tempo si discute sulla necessità di superare una logica meramente assistenziale e “prestazionistica” tipica di un welfare redistributivo, che caratterizza ancora gran parte del modus operandi di molti policy makers e operatori sociali. Si tratta, in sostanza, di ripensare a forme inedite di accompagnamento di quei diritti sociali, che il mercato tende a rimuovere, in favore di innovative politiche di intervento che abbiano un forte impatto generativo, ovverosia finalizzate al superamento di quelle forme di assistenza non più sostenibili dal punto di vista economico-sociale e prive di un corrispettivo di responsabilità e di impegno da parte del beneficiario. Occorre, pertanto, superare un paradigma basato sul semplice raccogliere e redistribuire risorse.
Il problema che ci si pone è se l’attuale sistema sociale sia in grado di fronteggiare le nuove forme di vulnerabilità, aggravatesi negli ultimi anni e ancor più con la crisi attuale. Come ha affermato più volte l’economista Zamagni, nel welfare redistributivo il referente è il portatore di fragilità e tutta la casistica di vulnerabilità viene bypassata contrariamente ad un welfare generativo che superando un atteggiamento paternalistico, promuove ogni intervento sociale lasciandosi guidare dal concetto “non posso aiutarti senza di te”.
Il welfare tradizionale, che per decenni ha garantito protezione sociale, riuscendo a rispondere a diversi bisogni (dalla vecchiaia alla malattia, dall’assenza di lavoro al contrasto alla povertà), pone evidenti limiti in termini di sostenibilità economica e di adattamento ai profondi mutamenti sociali (come l’invecchiamento della popolazione) che la pandemia ha significativamente accelerato (come la precarizzazione del lavoro, le nuove forme di povertà). Assistiamo ad una crescita esponenziale di beni e servizi anche da parte di quei gruppi sociali – specie il ceto medio – che tradizionalmente contribuivano a finanziare attraverso il proprio lavoro il nostro sistema di protezione sociale. La povertà di questi giorni mostra profili singolari, evidenziando la sua spiccata natura multidimensionale (redditi bassi, livelli occupazionali insufficienti specie quella giovanile, oneri di cura dei figli o degli anziani, strutture familiari sempre più fragili).
In considerazione di tutto ciò diventa fondamentale ripensare ad un sistema nuovo che poggi su logiche, su approcci nuovi, su una visione comunitaria ispirata dal principio di sussidiarietà circolare: Stato, mercato, privato sociale e cittadini concorrono a produrre soluzioni per il benessere di individui e famiglie. Insomma, necessita un livello di partecipazione sia sul fronte della condivisione di risorse economiche che di capitale sociale.
A tal proposito penso allo straordinario capitale sociale del Terzo Settore del Mezzogiorno nella determinazione a produrre economie per e con la comunità, alla spinta in termini di innovazione sociale di grande valore per rispondere alle tante forme di vulnerabilità, la cui responsabilità politica, come afferma De Rita, è quella di liberarlo dal ricatto della criminalità e dell’usura. Penso, inoltre, alla classe politica di alcune municipalità che ha invertito quel trend di politiche che a partire dal 1960 hanno preferito essere una classe di offerta di prestazioni e non di lettura del reale e programmazione partecipata.
Gli enti del Terzo Settore rappresentano la leva per attivare processi reali di cambiamento dinanzi alle grandi sfide economiche e sociali. Di qui la necessità di aprire una seria riflessione che porti al ripensamento di nuove politiche di welfare, atte ad interloquire con il principale agente del cambiamento, la persona, nella riscoperta di quel potenziale inespresso di risorse che lo conduca a processi di cambiamento individuale e sociale, di cui tutta la comunità di riferimento possa beneficiare in termini di impatto generato.
Si tratta di favorire le condizioni per ri-attivare le capacità di chi è in condizione di particolare vulnerabilità, nel riconoscimento della libertà che ciascuno esprime; una prospettiva realmente generativa, costruita sulla logica della responsabilizzazione e ispirata da un principio: la centralità della persona.
In definitiva, occorre modificare un framework tipico di un welfare tradizionale ormai insostenibile, favorendo un circuito assistenziale che saldamente poggi sull’intervento progettuale in sintonia con la persona portatrice di bisogni. Inutile sottolineare come tale operazione è a richiedere un cambiamento di paradigma, sovrastrutturale e di policy nell’affrontare l’esclusione sociale. In sua mancanza sarebbe impensabile attardarsi nell’individuazione di approcci e modelli efficaci di risposta al contrasto di forme di marginalità estreme, sociali ed economiche, lì dove si rende essenziale una prospettiva che punti ad un’integrazione tra le diverse policy e alla collaborazione tra diversi soggetti e livelli istituzionali. Fondamentali risulteranno tutte quelle politiche in grado di operare su un doppio livello, quello dell’integrazione dei processi di accompagnamento e cura e quello dell’integrazione delle strategie organizzative. In questi processi la società civile nelle sue diverse articolazioni gioca un ruolo determinante.
È, dunque, possibile ridisegnare il nostro welfare in chiave “generativa”, puntando al recupero di una visione comunitaria del welfare, sorretto da valori irrinunciabili quali la socialità, la fiducia, l’identità, la cittadinanza. La sfida per il futuro delle nostre comunità sta nell’adottare politiche e prassi generative capaci di produrre esiti generativi, in grado di generare diffusamente cambiamenti e nuove opportunità per tutti. Uno scenario futuro, che come dice Mauro Magatti, sia proiettato ad uno scambio sociale sostenibile-contributivo: ciascuno concorre alla creazione di valore per la propria comunità. Questo paradigma, innestato sul principio di un coinvolgimento responsabilizzante della persona, di certo consentirà di superare una logica paternalistica del welfare e porterà a ripensare i processi di inclusione sociale in termini di una nuova alleanza tra diritti e risorse, tra etica ed economia.
Le insidie sono moltissime. Ma non può sfuggire a nessuno che la via d’uscita dall’impasse del momento non può venire se non da un’azione concertata che metta a tema le buone pratiche atte a produrre solidarietà e cooperazione con uno sforzo enorme di coordinamento delle nostre scelte civiche.