Le anticipazioni del Rapporto SVIMEZ 2018 sull’economia e la società del Mezzogiorno hanno riportato l’attenzione dei media sui numeri della stentata ripresa italiana nel panorama europeo. Sono numeri noti, ma la lettura territoriale che ne dà la SVIMEZ merita attenzione.
Con riferimento, in particolare, a tre fatti.
Il primo: a dieci anni dal 2008 l’economia italiana non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi, un triste primato che il nostro paese in Europa condivide con la Grecia. Ne consegue che le sacche di emergenza sociale ingrossate dalla crisi sono ancora ben presenti, soprattutto al Sud, più duramente colpito dal crollo dell’occupazione.
Il secondo: nell’ultimo decennio è aumentata la distanza dell’Italia dall’Europa. Il Nord si allontana dalle altre (vere) “locomotive” continentali, mentre il Sud perde terreno dalla periferia europea. La caduta parallela delle due macro-ripartizioni si è tradotta in divari di sviluppo regionali interni (misurati dal pil pro capite) pressoché invariati. Una stabilità “statistica”, questa, sulla quale ha influito non poco la riduzione della popolazione residente al Sud (soprattutto della sua componente più giovanile e qualificata) per effetto della ripresa dei flussi migratori verso Nord.
Il terzo: l’anno scorso la SVIMEZ guardava al 2017 come l’anno della verifica della solidità della ripresa del 2015-2016, biennio nel quale il Sud usciva dalla recessione a ritmi più sostenuti o, per meglio dire, meno asfittici del Centro-Nord. Oggi possiamo dire che l’appuntamento è stato mancato. Il passo è ancora troppo lento. Il nostro Sud continua ad impallidire di fronte ai tassi di crescita sostenuti di molte altre aree periferiche europee. In un’economia nazionale fanalino di coda nelle previsioni di crescita per il 2018 della Commissione europea (ancora insieme alla Grecia).
Certo non mancano i segnali positivi. La crescita degli investimenti industriali, prima di tutto. E la scomparsa del blocco monolitico del Mezzogiorno in caduta libera degli anni della crisi, al quale sembra far posto una certa disomogeneità degli andamenti tra regioni meridionali. Ma dalle previsioni SVIMEZ non si attendono accelerate apprezzabili nel biennio 2018-2019.
Alla luce di questi andamenti, il bilancio delle politiche del decennio che ci lasciamo alle spalle non può essere positivo. La riduzione del divario Nord-Sud non è stata al centro delle attenzioni dei cinque Governi (escludendo quello in carica) che si sono susseguiti dal 2008. Berlusconi ha negato la crisi, figuriamoci i divari territoriali. Monti è stato autorevole e convinto interprete della dottrina dell’austerità, accollando buona parte dei costi al Sud per effetto, soprattutto, dei tagli agli investimenti pubblici. Letta non ha avuto il tempo di fare granché. Renzi ne ha avuto molto, ma lo ha impiegato ad alimentare una narrazione lontana dalle emergenze sociali che nel frattempo crescevano, per poi tornare sui suoi passi e lanciare con grande ritardo, molta enfasi, e poche risorse aggiuntive, il Masterplan per il Sud. Gentiloni, infine, ha aperto dossier importanti, innanzitutto le ZES e la clausola del 34%, con il merito di aver posto “esplicitamente” l’obiettivo della riduzione dei divari regionali. Un passo avanti verso l’abbandono dell’idea che l’avvicinamento del Sud al Nord possa essere il risultato “naturale” del dispiegarsi (più intenso al Sud) degli effetti espansivi attesi dall’attuazione delle riforme strutturali.
Il testimone ora è passato al governo del “cambiamento”. In una stagione incerta: per uno scenario geopolitico globale in evoluzione, per le incognite sull’impatto territoriale delle politiche del nuovo Governo italiano, per un’Europa ancora incompiuta e a rischio di disgregazione, con i nodi da sciogliere della politica di coesione per il post-2020. Quali attenzioni riceverà il Sud, e se ne riceverà, è da vedere.
Un governo che fa della difesa dell’interesse nazionale una bandiera, dovrebbe salvaguardare in via prioritaria l’unità del paese, valorizzando le complesse complementarietà che legano Sud e Nord del paese. Raccogliere l’invito della SVIMEZ, in linea con le evidenze empiriche suggerite da diversi studi e con le indicazioni di policy della Banca d’Italia, a leggere i rapporti tra le due aree del paese con la lente dell’interdipendenza (mutuamente benefica) tra le due macro-ripartizioni. Due territori che non sono sistemi a parte, ma aree strutturalmente diverse e strettamente integrate e interdipendenti che, necessariamente, tendono a crescere (e arretrare) insieme. Perché una parte non trascurabile (il 14% secondo le stime SVIMEZ) del PIL del Centro-Nord è attivata dalla domanda del Mezzogiorno. Ovviamente, vale lo stesso ragionamento per la produzione meridionale che trova come sbocco la domanda di imprese e consumatori del Centro-Nord. Ma gli stimoli di domanda provenienti dal Mezzogiorno tendono a disperdersi territorialmente con maggiore intensità rispetto a quelli provenienti dal Centro-Nord. E l’effetto espansivo per l’economia nazionale è sempre più elevato se l’impulso della domanda proviene dal Mezzogiorno. Il che fornisce un’indicazione di policy precisa. Se si vuole dar seguito allo slogan abusato della ripartenza del Paese basata sul rilancio del Sud e rilanciare gli investimenti pubblici, come è stato annunciato dal Governo, è soprattutto a Sud che dovranno concentrarsi gli impegni di spesa, a beneficio non solo delle regioni meridionali ma di tutto il paese.