Con l’istituzione del comune di Corigliano-Rossano (prov. Cosenza), al 31 marzo 2018, il numero delle amministrazioni comunali scende a 7.954. L’evento è sicuramente straordinario per almeno due motivi. Innanzitutto, per la Calabria si tratta della seconda fusione nell’arco di 10 mesi dopo la creazione di Casali del Manco, nato dai soppressi Casole Bruzio, Pedace, Serra Pedace, Spezzano Piccolo e Trenta, tutti in provincia di Cosenza. In secondo luogo, il comune appena istituito dalla fusione di Corigliano Calabro (40.426 abitanti alla data del 1° gennaio 2017) e di Rossano (36.724 residenti) si configura come la terza città più popolosa della regione, dopo Reggio Calabria e Catanzaro, dove vivono 182.551 e 90.240 persone rispettivamente. Insomma, Corigliano-Rossano diventa più grande di città capoluogo di provincia del Sud come Caserta, L’Aquila, Potenza, Matera, e del Nord come Asti, Pavia o Cremona.
A livello nazionale sono circa 5/6 anni che il numero di comuni italiani si sta contraendo come conseguenza delle fusioni di enti che vanno a costituire nuove amministrazioni comunali: è, infatti, dal 2014 che si riducono in media una ventina di comuni all’anno (per lo più con meno di 5.000 ab.), con un picco di 45 comuni in meno nel passaggio dal 2015 al 2016 (Figura 1). Sebbene il ricorso all’istituto della fusione sia ancora episodico e coinvolga un numero di enti “modesto”, stiamo assistendo ad una contrazione volontaria dell’universo dei comuni italiani che non ha precedenti. L’ultima riduzione di rilievo risale infatti al periodo del regime fascista, durante il quale furono soppressi per legge i municipi più piccoli per poi accorparli ai comuni di taglia demografica maggiore.
Attualmente l’orientamento della normativa nazionale è quello di promuovere ed incrementare il ricorso alle fusioni di comuni, per poi conseguire, come obiettivo ultimo, un riordino del territorio capace di rafforzare l’offerta e il grado di efficienza dei servizi erogati ai cittadini. Non a caso sono previste forme di incentivazione statale anche nella Legge di Bilancio 2018 (Legge 27 dicembre 2017, n. 205): il comma 868 dell’articolo 1 incrementa il parametro sulla base del quale è commisurato il contributo straordinario per favorire la fusione dei comuni (a partire dal 2018 sarà pari al 60%, e non più al 50%, dei trasferimenti erariali attribuiti per l’anno 2010); il comma 869, a fronte dell’incremento dei contributi per le fusioni di comuni, accresce la dotazione finanziaria destinata a tale finalità per un importo pari a 10 milioni annui.
Per le casse dei comuni, tali incentivi finanziari, integrati con quelli previsti dalle singole amministrazioni regionali, rappresentano sicuramente una ragione in più per considerare l’opzione della fusione. Tuttavia, decidere di intraprendere un percorso finalizzato ad una fusione intercomunale è cosa ben diversa e più complessa. Accorpare più realtà amministrative è, innanzitutto, un processo politico e sociale, fisiologicamente destinato ad un referendum, che coinvolge una pluralità di attori politici e le popolazioni interessate, un processo durante il quale emerge l’esigenza di conciliare gli interessi delle singole comunità, garantendo un’equa rappresentanza dei territori. A tali complessità si aggiunge la forte incertezza riguardante i risultati attesi da una fusione, non garantibili ex ante, in termini di un concreto recupero di efficacia ed efficienza nell’erogazione dei servizi.