L’Istat ha recentemente pubblicato il report sui risultati economici delle imprese italiane, basato sui dati 2016. Tra i vari spunti che offre lo studio, si evincono differenze di performance a seconda della dimensionale aziendale, che vedono favorite le attività più grandi. Per esempio, la tabella 1 riporta alcuni indicatori economici classificando le imprese italiane per classe di addetti.
Se si fa riferimento al valore aggiunto per addetto, la differenza tra le imprese di diversa dimensione è molto ampia, essendo più di quarantamila euro per addetto tra la fascia più piccola e quella più grande. Molto importante anche la colonna sulla retribuzione lorda, che vede in grande difficoltà le imprese ricadenti nella fascia 0-9 addetti, mentre la retribuzione è quasi allineata quando si considerano le imprese al di sopra dei cinquanta dipendenti. E’ anche ampia la forbice anche in termini di investimenti per addetto.
In sintesi, fatto salvo il numero di ore lavorate che sono minori per le micro-imprese, per il resto è chiaro come siano le grandi imprese ad avere i risultati migliori, che si traducono anche in maggiori benefici per i dipendenti delle stesse.
Un’altra distinzione importante riguarda le imprese appartenenti o non appartenenti a gruppi (figura 2). Il gap di produttività a vantaggio delle prime è notevolissimo, per tutte le classi dimensionali. Ciò non rappresenta una sorpresa. Infatti, le grandi aziende e, ancor di più, quelle appartenenti a gruppi d’impresa, possono sfruttare meglio tutto il loro potenziale, il loro know-how, le economie di scala, l’accesso a diverse fonti di finanziamento, la possibilità di procurarsi i migliori manager e impiegati disponibili sul mercato del lavoro. Più si è piccoli, più si fa fatica a competere sui mercati nazionali e internazionali, ad offrire una speranza di crescita al personale, ad accedere al credito.
Inoltre, nelle grandi aziende, a differenze delle micro e piccole imprese, è più facile implementare presidi interni ed esterni di compliance, che vigilano sul trattamento regolare dei dipendenti, sulla sicurezza, sull’adempimento degli obblighi fiscali, sui rischi ambientali. Il tutto genera vantaggi anche per le comunità locali e il territorio.
Il nanismo delle imprese calabresi Il rapporto periodico “Check-up Mezzogiorno”, a cura di SRM[1], offre una tabella di sintesi sulla ripartizione delle imprese manifatturiere per classi dimensionali a livello UE e italiano.
A livello di nazioni, si ravvisa il ritardo italiano rispetto alla Germania in termini dimensionali, ma la media nazionale tiene il passo di altre potenze come la Francia (seppur abbiamo meno grandi imprese rispetto ai transalpini, come noto). Nella colonna di sinistra sono invece rappresentati i dati regionali. Si nota un importante distacco tra il Mezzogiorno ed il Centro-Nord. Il primo ha una composizione simile alla Grecia, ma denota anche al suo interno alcune differenze.
La Calabria è la Regione che presenta il più alto tasso percentuale di micro-imprese (94,7%, più di qualsiasi stato UE), la più bassa percentuale nella fascia 10-49 addetti (5%), la più bassa nella fascia 50-249 addetti (0,3%, meno di qualsiasi stato UE) e condivide con la Sicilia e la Basilicata lo 0% nella fascia superiore ai 250 addetti.
Il ritardo delle aziende calabresi si denota anche dalla forma giuridica d’impresa prescelta. Secondo i dati diffusi dal “Bollettino Mezzogiorno”[2], sempre a cura di SRM, all’interno del Mezzogiorno, la Calabria ha la percentuale più alta, rispetto al totale regionale, di imprese individuali (73,41% – media Mezzogiorno 67,18) e quella più bassa di società di capitali (14,92% – media Mezzogiorno 18,72%). Come noto, le società di capitali (soprattutto le Società per Azioni e le Società a Responsabilità Limitata), sono le più adatte ad un’economia di mercato sviluppata, perché distinguono i rapporti patrimoniali dei soci e quelli della società, perché consentono una migliore governance dell’impresa (distinzione proprietari-manager), perché si caratterizzano per la libera trasferibilità di quote e azioni che favorisce le operazioni straordinarie, le quali spesso conducono ad una crescita dimensionale.
Gli strumenti di crescita Sono tanti gli strumenti che, astrattamente, permettono alle imprese di poter crescere. Partendo dal lato giuridico-societario, ovviamente vi sono tutte le operazioni straordinarie, dalla fusione alle varie forme di acquisizione, che permettono spesso di accrescere le quote di mercato e di fondere i rispettivi know-how.
Ci sono poi una serie di forme meno invasive di aggregazione, finalizzate ad uno scopo preciso, come nel caso delle forme “classiche” dei consorzi interni od esterni, delle società consortili, o di quelle importate dalla prassi internazionale (Joint Ventures contrattuali e societarie). Più recentemente il legislatore ha introdotto una nuova forma di aggregazione, contrassegnata anche da incentivi e agevolazioni. Si tratta del Contratto di Rete, con il quale due o più imprese possono instaurare una collaborazione stabile e duratura per raggiungere determinati obiettivi (ad esempio in termini di innovazione e di competitività). Sono seicento le imprese calabresi[3] coinvolte in contratti di rete. Si tratta di uno strumento molto interessante, perché consente, comunque, di mantenere l’autonomia e l’indipendenza della propria impresa, sfruttando però i vantaggi della “rete”.
Naturalmente per crescere c’è anche bisogno di capitali. Da questo punto di vista, il legislatore negli ultimi anni ha cercato di introdurre nuovi strumenti finanziari che siano in grado di fornire delle alternative al canale del credito bancario. Tra i più interessanti rientrano i mini-bond, che sono delle obbligazioni che possono essere emesse dalle società non quotate. Ovviamente per poter emettere mini-bond occorre una certa organizzazione aziendale, ma i costi non sono proibitivi. Secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano[4], nel 2017 solo un’azienda calabrese è riuscita ad emettere mini-bond per un valore di 500 mila euro (Agrumaria Reggina S.r.l.), per il secondo anno consecutivo.
Oltre ai mini-bond ci sono altri strumenti, quali fintech, private debt, venture capital, ma richiedono una certa qualità innovativa dell’impresa che si vuole finanziare. Aggiungiamo a questa brevissima rassegna anche un programma pubblico, Resto al Sud, anch’esso volto a cercare di favorire una crescita delle imprese del Mezzogiorno, con una parte di finanziamento a fondo perduto ed una parte da restituire senza corresponsione degli interessi.
Conclusioni Come si è visto rapidamente nel paragrafo precedente, attualmente sussistono gli strumenti giuridici e la necessaria liquidità per strutturare e finanziare la crescita dimensionale. Ciò che manca in Calabria è forse ancora lo step propedeutico, che è di tipo culturale. Occorre, infatti, superare la tentazione di restare piccoli per timore e per poter beneficiare di un minor controllo dal punto di vista fiscale e laburistico. Dato che le sfide culturali sono le più difficili da vincere, è richiesto un duro impegno attivo da parte degli enti pubblici preposti, dei professionisti, dei think-tank, della stampa, delle associazioni di categoria e delle università, volto a diffondere una cultura d’impresa orientata alla crescita, ad un governance societaria moderna, efficiente e “compliant”. Una sorta di manifesto per la crescita d’impresa. Ne gioverebbe l’intera economia della Regione.
[1] Studi e Ricerche per il Mezzogiorno https://www.sr-m.it/p/check-up-mezzogiorno-luglio-2018/
[2] https://www.sr-m.it/cp/bollettino-mezzogiorno-it/
[3] http://contrattidirete.registroimprese.it/reti/
[4] http://www.osservatoriocrowdinvesting.it/