A partire dai primi anni novanta del secolo scorso, la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico ha richiesto in Italia un progressivo aumento dei requisiti richiesti per poter ottenere la pensione, sia di anzianità (o anticipata) sia di vecchiaia. L’inasprimento più forte ha interessato le donne alle dipendenze dello Stato, in particolare se coniugate e/o con figli a carico. Fino al 1997 esse potevano ottenere la pensione di anzianità alla sola condizione di avere 14 anni, 6 mesi e un giorno di contributi [1]. Il requisito contributivo è poi aumentato gradualmente fino a 41 anni e 10 mesi nel 2016-2018, soprattutto per effetto della riforma Dini del 1995. Meno clamoroso, ma pur sempre molto forte, è stato l’aumento dell’età pensionabile generale, vale a dire dell’età in cui si può ottenere la pensione di vecchiaia. In questo caso l’aumento più forte si è avuto per le donne alle dipendenze del settore privato, da 55 anni prima del 1994 fino a 66 anni e 7 mesi nel 2018. Aumenti meno forti, ma pur sempre rilevanti, si sono avuti per gli uomini dipendenti da imprese private, da 60 anni prima del 1994 a 66 anni e 7 mesi nel 2018. Ulteriori aumenti sono attualmente previsti per i prossimi decenni fino a quasi 70 anni nel 2050 [2].
Secondo l’OECD [3], nel 2016 l’età normale di pensionamento era in Italia di 66,6 anni per gli uomini e di 65,6 anni per le donne, decisamente più alta che in Francia (61,6 anni sia per gli uomini che per le donne), e pure più alta che in Germania (65 anni) e nel Regno Unito (65 anni per gli uomini e 63 per le donne). Con riferimento a una persona che avesse cominciato a lavorare a 20 anni nel 2016, l’OECD prevede una età normale di pensionamento di 71,2 anni in Italia, 63-64 anni in Francia, 65 anni in Germania, 68 anni nel Regno Unito.
Il motivo principale per cui la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico richiede una età di pensionamento significativamente più alta in Italia che in gran parte degli altri paesi sembra essere il più basso tasso di occupazione. Nel 2016, per ogni 100 persone in età da lavoro (15-64 anni), ne sono state occupate in media soltanto 57,2 in Italia, a fronte di 64,6 in Francia, 74,7 in Germania, 74,3 nel Regno Unito, 67 in media nei paesi dell’OECD [4]. A sua volta, il basso valore del tasso medio di occupazione dell’Italia deriva soprattutto dai bassissimi valori del Mezzogiorno. Secondo le stime della Banca d’Italia [5], nel 2016, per ogni 100 persone in età da lavoro, ne sono state occupate in media 65,4 nelle regioni del Nord-Ovest dell’Italia e 66,5 in quelle del Nord-Est, ma soltanto 43,4 nelle regioni del Mezzogiorno (39,6 in Calabria) [6]. A sua volta, il bassissimo tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno deriva da forti carenze di competitività nei settori produttivi di beni a mercato internazionale (manufatti, servizi informatici, ecc.), i cui effetti negativi sull’occupazione sono compensati soltanto in parte da politiche fiscali fortemente espansive consentite dai trasferimenti dalle regioni del Nord (residui fiscali).
Note:
[1] Ciò per effetto del DPR 29 dicembre 1973 n. 1092 in materia di “approvazione del testo unico sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, deliberato dal Governo presieduto da Mariano Rumor, con Ugo La Malfa al Ministero del tesoro, sostenuto da Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico e Partito Repubblicano, votato in parlamento sia dalla maggioranza sia dall’opposizione.
[2] Il bilancio del sistema previdenziale italiano, Rapporto n. 5, anno 2018, a cura del Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali, pagine 164 e 165.
[3] OECD, Pensions at Glance, Parigi, dicembre 2017, pagine 93 e 95.
[4] OECD, Employment Outlook 2017, pagina 191.
[5] Banca d’Italia, Economie regionali, n. 23, novembre 2017, pagina 97.
[6] Le differenze dal punto di vista del tasso di occupazione si riflettono in differenze altrettanto forti per quel che riguarda il tasso di copertura della spesa pensionistica con i contributi previdenziali a carico di lavoratori e delle imprese. Secondo le stime di Irene Vannini, “Spesa pubblica per protezione sociale: Piemonte, Emilia Romagna e Puglia a confronto”, 10/02/2018, tabella 5, nel 2015 il tasso di copertura contributiva della spesa pensionistica è stato dell’87% nelle regioni del Nord dell’Italia, del 77% in quelle del Centro e soltanto del 51% nelle regioni del Mezzogiorno (http://www.ilpuntopensionielavoro.it/site/home/pensioni/spesa-pubblica-per-protezione-sociale-piemonte-emilia-romagna-e-puglia-a-confronto.html).