La richieste di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” di Emilia Romagna, Lombardia e Veneto sono nell’agenda di governo da oltre un anno e mezzo, dalla firma delle pre-intese del Governo Gentiloni (febbraio 2018). Nonostante il tema sia entrato nel contratto del governo giallo-verde come “questione prioritaria”, i mass media se ne sono disinteressati. Finché il M5S ha fatto dell’opposizione all’autonomia la bandiera identitaria da brandire per arginare l’esplosione di consensi della Lega al Sud. Da quel momento, la dialettica tra le diverse posizioni in campo si è fatta spazio nei mezzi di informazione. Un confronto divenuto via via più serrato dopo la diffusione a metà maggio delle bozze delle intese.
La cesura che si è prodotta sul piano politico da quando il M5S si è messo di traverso all’approdo delle intese in Parlamento è ormai evidente a tutti. Ora, si può leggere in questa opposizione una genuina accresciuta consapevolezza sui limiti e i pericoli della riforma o ridurla a semplice tattica dilatoria per risalire nei sondaggi facendo leva sui peggiori istinti sudisti. Ma non si può certo sostenere che i motivi di dissenso recepiti dal M5S siano espressione di una critica “emotiva” di “cialtroni” che non hanno letto le carte e non entrano nel merito della questione.
Le critiche al regionalismo differenziato, infatti, non vengono solo da Sud, non più. Organismi tecnici come il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio hanno sonoramente bocciato le richieste di Emilia Romagna, Lombardia e Vento.
Ricordiamo alcune di queste critiche:
- le intese mancano di esplicitare qualsiasi criterio in materia di solidità delle finanze e di capacità amministrativa delle regioni richiedenti sulla base dei quali valutare l’ammissibilità delle richieste;
- le intese hanno problemi di coerenza con gli interessi nazionali e produrranno ricadute ignote sul funzionamento dello Stato e delle altre regioni;
- è controversa la legittimità di attribuire ulteriori forme di autonomia in tutte le materie previste dall’art.116, c.3, perché una così ampia estensione dell’autonomia determinerebbe di fatto la creazione di nuove regioni a statuto speciale;
- il criterio in base al quale l’ammontare delle risorse destinate alle regioni richiedenti non possa essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle funzioni regionalizzate implica un aumento complessivo della spesa statale. Ciò è in contraddizione con la clausola di invarianza finanziaria e comporta un ingiustificato spostamento di risorse verso le regioni ad autonomia differenziata con conseguente deprivazione delle altre;
- è inappropriata la soluzione di affidare la determinazione delle risorse da trasferire a una Commissione paritetica Stato-Regione dopo l’approvazione delle intese da parte del Parlamento che, invece, dovrebbe avere informazioni complete e piena consapevolezza delle implicazioni finanziarie delle intese prima di esprimersi;
- il sistema di finanziamento presenta elementi contradditori che suscitano preoccupazioni per i possibili rischi di peggioramento delle prestazioni fornite, deficit dei bilanci regionali, squilibri territoriali, conflitti di competenze, di tenuta del vincolo di bilancio nazionale, per la garanzia della solidarietà interregionale.
E potremmo continuare…
Dopo queste stroncature, il fronte del No al regionalismo differenziato non può essere descritto semplicisticamente come un blocco monolitico, radicato territorialmente, di professionisti del meridionalismo lagnoso e questuante, o di un’elité locale di intellettuali ignara delle responsabilità della classe dirigente meridionale. È una narrazione che capovolge la realtà e alimenta una contrapposizione territoriale della quale non si sente nessun bisogno. Ma è facile prevedere che il pregiudizio di un Mezzogiorno nemico dell’efficienza che vuole bloccare l’autonomia accompagnerà il tour estivo di Salvini sulle spiagge del Sud.