Come sottolinea il Rapporto sull’Economia della Calabria 2017, presentato dalla Banca d’Italia, l’anno scorso la crescita economica regionale è stata nettamente inferiore a quella, già modesta, del Paese. Come conseguenza, il divario di sviluppo, già considerevole, tra la regione e il resto del Paese tende ad aumentare. Ma c’è un altro aspetto da considerare. La Calabria – come le altre regioni – ha attraversato negli anni scorsi una crisi prolungata che ha ridotto notevolmente la produzione e l’occupazione. Rispetto al 2007, il Pil calabrese è del 13 per cento più basso, mentre la disoccupazione è circa 12 punti più elevata. Se la Calabria crescesse di un punto percentuale all’anno, per recuperare il terreno perduto sarebbero necessari almeno tredici anni.
A parte eventi eccezionali, l’economia calabrese tende verso il suo consueto sentiero di lenta crescita da cui, appunto, dipende il suo ritardo di sviluppo. Perché accade ciò? Si potrebbe rispondere imputando responsabilità a questa o quella classe dirigente o a politiche più o meno appropriate. La ragione principale, a mio giudizio, è un’altra. La crescita dipende dalle caratteristiche strutturali, fondamentali, di ciascuna economia. In un dato anno, l’economia è esposta a eventi congiunturali, a perturbazioni più o meno rilevanti, che influenzano la produzione e l’occupazione. Per la Calabria, questi eventi possono essere un’annata favorevole in agricoltura, una stagione turistica positiva o un’accelerazione della spesa nei fondi regionali. Questi – ma anche shock negativi – si riflettono transitoriamente sulla crescita regionale, ma la dinamica economica dipende da fattori più strutturali. Per usare una metafora, per uno studente, il voto in un esame universitario può essere influenzato da eventi transitori – come, per esempio, un improvviso mal di testa – ma la media dei risultati in tutti gli esami dipende, ragionevolmente, da altri elementi, tra cui l’impegno nello studio e le capacità individuali. Nel caso della Calabria, quali sono le caratteristiche fondamentali che influenzano la sua capacità di produrre?
Come ricordava Antonio Aquino in un intervento di qualche giorno fa, il Pil calabrese proviene per l’80 per cento dai servizi, mentre solo il 6 per cento dall’industria. Il settore dei servizi è, poi, composto largamente dalla pubblica amministrazione o da attività che da essa, direttamente o indirettamente, dipendono. Il peso di questi settori rende l’economia calabrese diversa da quella delle regioni più avanzate e dinamiche del Nord. Anche in quelle regioni i servizi hanno un peso preponderante, ma alla base vi è una struttura industriale sufficientemente sviluppata. Nelle regioni del Nord, dall’industria proviene il 20-25 per cento del valore aggiunto. È questa che alimenta la crescita. Certo, anche nel settore dei servizi vi sono comparti in grado di creare occupazione. Ma in Calabria questi comparti sono ancora del tutto esigui. Lo dimostra l’elevato tasso di disoccupazione, la sottoccupazione più o meno nascosta, l’elevata migrazione di giovani altamente qualificati.
Il dibattito sull’efficienza delle politiche, sull’impatto dei fondi strutturali o sulle capacità delle classi dirigenti può appassionare. Ma, nella sostanza, la crescita economica dipende da altri fattori. Le economie crescono quando ci sono investimenti privati, quando c’è una base produttiva in grado di innovare e creare nuova occupazione. In carenza di ciò, le politiche pubbliche possono fare poco; certamente meno di quanto in genere si pensa.