Introduzione La conclusione del mandato di Mario Draghi come Presidente della Banca centrale europea ha rappresentato l’occasione per ricordare il suo contributo fondamentale a difesa dell’euro, attribuendogli addirittura il merito di aver “salvato” l’euro, prima con la celeberrima affermazione del 26 luglio 2012 a Londra (“…..within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough …”), e poi con l’acquisto da parte della BCE di grandi quantità di titoli di Stato dei paesi dell’area euro. In realtà, Le cause della crisi dell’area euro erano tali da richiedere interventi ben diversi e più rilevanti di quelli, anche eterodossi, attivabili da una banca centrale.
Crisi e rinascita dell’euro La causa fondamentale della gravissima crisi dell’area euro negli anni fra il 2010 e il 2013 fu l’accentuata divergenza nella dinamica del costo del lavoro e dei prezzi interni, in particolare fra la Germania da un lato e Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia all’altro[1]. Questa divergenza era stata evidenziata dall’Economist già a febbraio 2005: fra il 1999 e il 2004 il costo relativo unitario del lavoro rispetto alla media dell’area euro era diminuito di circa il 10% in Germania mentre era aumentato di circa l’8 per cento in Italia e Spagna, con una perdita di competitività di Italia e Spagna rispetto alla Germania di circa il 20 per cento. La divergenza nella dinamica del costo del lavoro era proseguita poi fino al 2008. Rispetto al 1999, nel 2008 la perdita di competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto era diventata di circa il 37 per cento per l’Irlanda, 35 per cento per la Spagna, 27 per cento per la Grecia, 26 per cento per Italia e Portogallo, 17 per cento per la Francia. Per la Grecia la perdita di competitività rispetto alla Germania proseguì fino a raggiungere il 30 per cento nel 2010, mentre Spagna, Irlanda e Portogallo invertirono decisamente la tendenza già a partire dal 2008; la situazione di Italia e Francia rimase sostanzialmente invariata per circa tre anni, per migliorare poi gradualmente a partire dal 2011 (OECD, Economic Outlook, 2011, 2016)[2].
La divergente dinamica del costo del lavoro derivò principalmente dalla dinamica delle retribuzioni in rapporto a quella della produttività. Fra il 1998 e il 2008 la produttività del lavoro rimase sostanzialmente invariata in Italia e Spagna, aumentò di circa il 10 per cento in Germania e Francia, il 12 per cento in Portogallo, il 25 per cento in Irlanda e Grecia. La retribuzione media per occupato aumentò invece di oltre il 70 per cento in Irlanda e Grecia, il 48 per cento in Portogallo e Spagna, il 33 per cento in Francia, il 30 per cento in Italia, il 10 per cento in Germania[3]. (Aquino, 2017, Figg. 5 e 6). Questi dati evidenziano come Irlanda e Grecia, a causa del fortissimo aumento delle retribuzioni, registrarono una forte perdita di competitività rispetto alla Germania, nonostante una crescita della produttività di 15 punti più elevata.
Furono queste accentuate divergenze nel costo del lavoro ( e nei prezzi interni) a rendere molto problematico il mantenimento della stessa moneta da parte di Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda. Situazioni di questa natura erano state sperimentate in passato da paesi con monete diverse ma con tassi di cambio “fissi”, e sempre la carenza di competitività era stata superata attraverso la svalutazione della moneta. Un esempio classico, analizzato magistralmente da keynes (1925), è il ritorno dell’Inghilterra al Gold standard deciso da Winston Churchill con la stessa parità di prima della grande guerra, che comportava una sopravvalutazione della sterlina di circa il 10-12 per cento. Rivolto a Churchill, Keynes scriveva: “ ..if you fix the exchange at this gold parity … you are committing youself to a policy of forcing down money wages …. We must warn you that this … policy is not easy. It is certain to involve unemployment …. By credit restrictions …. You can deliberately intensify unemployment to any required degree, untill wages do fall …. We ought to warn you … that it will not be safe politicaly to admit that you are intensifying unemployment deliberately to reduce wages. …about two years may elapse before it will be safe for you to utter in public a single word of truth …”
In effetti l’euro fu “salvato” non dalla BCE, ma dalle politiche indicate come necessarie da Keynes per mantenere l’Inghilterra nel gold standard con la stessa parità di prima della guerra. Per effetto di politiche fortemente restrittive, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia hanno recuperato la perdita di competitività rispetto alla Germania che avevano accumulato nei primi dieci anni dell’euro. Fra il 2008 e il 2019 le retribuzioni nominali medie sono aumentate di oltre il 30 per cento in Germania, mentre sono addirittura diminuite di circa il 15 per cento in Grecia; in Irlanda, Spagna e Portogallo sono nel 2019 di poco superiori a quelle del 2008; in Italia hanno registrato un aumento di circa il 10 per cento, vale a dire 20 punti in meno che in Germania (OECD, Economic Outlook, 2019).
Mezzogiorno: produttività e costo del lavoro L’economia italiana è caratterizzata da differenze regionali di una entità che non sembra aver riscontro in nessun altro paese. L’indicatore che più frequentemente viene utilizzato per evidenziare queste differenze è il prodotto interno lordo (PIL) per abitante. Secondo le stime dell’ISTAT (2018), nel 2017 il PIL per abitante è stato di circa 35 mila euro nelle regioni del Nord dell’Italia (con un massimo di 38 mila in Lombardia e un minimo di 30 mila in Piemonte), di 31 mila euro nelle regioni del Centro (con un massimo di 33 mila nel Lazio e un minimo di 24 mila in Umbria), e di 18 mila euro nel Mezzogiorno ( con un massimo di 24 mila in Abruzzo, un minimo di 17 mila in Sicilia e in Calabria, e un valore solo di poco superiore (18 mila) in Campania e Puglia. La differenza fra Nord e Centro è soltanto in media di 4 mila euro, con il Pil per abitante del Piemonte addirittura più basso della media del Centro, la media del Mezzogiorno, invece, è soltanto la metà di quella del Nord, con una differenza di ben 17 mila euro! Inoltre, mentre il Nord e il Centro registrano una variabilità regionale alquanto elevata, le regioni del Mezzogiorno, a parte l’Abruzzo, registrano valori del PIL per abitante tutti vicini alla media, in particolare, le quattro più popolose regioni del Mezzogiorno registrano differenze di soli mille euro: 17 mila per Calabria e Sicilia, 18 mila per Campania e Puglia. La determinante principale delle differenze nel Pil per abitante fra le regioni del Nord e del Sud dell’Italia è costituita da differenze nel tasso di occupazione. Per ogni cento persone in età da lavoro, nel 2017 ne sono state occupate in media 67 nel Nord dell’Italia, 63 nel Centro, e soltanto 44 nel Mezzogiorno, con un minimo di 41 in Sicilia e Calabria, e 42 in Campania. La forte carenza di opportunità di lavoro determina fortissimi flussi emigratori dal Mezzogiorno verso il Nord dell’Italia e diversi paesi esteri. Altra caratteristica strutturale fortemente negativa del Mezzogiorno è l’elevatissimo disavanzo negli scambi con l’esterno di merci e servizi, che ha oscillato nel quadriennio 2013-2016 intorno al 18% del Pil, e addirittura intorno 36% per la Calabria. Il disavanzo del Mezzogiorno è coperto dal Nord dell’Italia, che nel quadriennio 2013-2016 ha registrato un avanzo superiore all’8 per cento del Pil, e addirittura al 15 per cento la Lombardia (Istat, Conto economico risorse e impieghi regioni italiane, www.istat,it).
Le vicende dell’area euro, e soprattutto l’esperienza della Germania, passata in un decennio, grazie a un rigido controllo del costo del lavoro, dal “sick man” dell’area euro dei primi anni duemila ad una “economic superstar”, evidenziano, la grande importanza del costo del lavoro quale strumento di controllo dei rapporti di competitività fra paesi diversi. All’interno dell’Italia, un forte squilibrio competitivo è all’origine del bassissimo tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno e di conseguenti flussi emigratori verso il Nord dell’Italia e verso altri paesi. Anche sulla base dell’esperienza dell’area euro, l’analisi economica evidenzia come un livello appropriato del costo del lavoro potrebbe portare ad un equilibrio competitivo fra Nord e Sud dell’Italia, innalzando fino a livelli fisiologici il tasso di occupazione nel Mezzogiorno e riducendo i flussi migratori. A volte si sostiene che in effetti il costo del lavoro per unità di prodotto nel Mezzogiorno non appare sostanzialmente diverso rispetto al Nord poiché retribuzioni più basse già compensano per la minore produttività[4]. La compensazione fra differenze retributive e differenze di produttività viene evidenziata però considerando le attività produttive attualmente presenti nel Mezzogiorno. Ciò ovviamente non può che essere vero, poiché se così non fosse molte di queste attività non potrebbero continuare a operare nel Mezzogiorno. Per aumentare l’occupazione nel Mezzogiorno è però necessario che aumenti in misura significativa l’occupazione in attività produttive in grado di competere con quelle del Nord dell’Italia, e ciò richiede un differenziale più ampio nel costo del lavoro fra Nord e Sud dell’Italia[5]. In secondo luogo, significative differenze retributive fra Nord e Sud dell’Italia si registrano soltanto nel settore privato, con un conseguente differenziale all’interno delle regioni del Mezzogiorno fra dipendenti delle imprese private e lavoratori autonomi, e dipendenti di amministrazioni pubbliche; ciò, oltre ad apparire profondamente iniquo, ha effetti significativamente negativi per la produttività delle imprese private, senza alcun evidente vantaggio di efficienza per le amministrazioni pubbliche. Appare difficile avere elevati livelli di produttività nel settore privato, se i lavoratori più efficienti e motivati sono attratti da retribuzioni significativamente più elevate nel settore pubblico (Del Monte, 1991; Alesina, Danninger e Rostagno, 2001).
Conclusioni Lo squilibrio competitivo fra Nord e Sud dell’Italia ha determinato una carenza così forte di opportunità di lavoro che spinge milioni di giovani ad emigrare. L’analisi economica, anche sulla base di tante esperienze concrete, tra cui quella della Germania negli anni duemila, evidenzia come potrebbe essere possibile avere anche nel Mezzogiorno una situazione di normalità dal punto di vista delle opportunità di lavoro. Le difficoltà che si frappongono all’attuazione di misure di riequilibrio competitivo fra Nord e Sud dell’Italia sono di natura prevalentemente politica. La principale difficoltà riguarda la differenziazione delle retribuzioni nominali nelle amministrazioni pubbliche. Nonostante diversi studi abbiano mostrato come significative differenze nel costo della vita comportino, a parità di retribuzioni nominali, differenze rilevanti nelle retribuzioni reali, e nonostante differenze a volte anche forti nelle retribuzioni nominali siano accettate per i lavoratori autonomi e per i dipendenti di imprese private, in particolare quelle più piccole, una fortissima opposizione politica si è frapposta fino ad ora a qualsiasi proposta di differenziazione regionale delle retribuzioni nominali dei dipendenti pubblici. Una seconda difficoltà è rappresentata dall’opposizione della Commissione europea a significative e durature differenziazioni regionali delle imposte sul lavoro. La terza difficoltà riguarda la possibilità di differenziare all’interno del Mezzogiorno le imposte sul lavoro fra settori a mercato esclusivamente locale e settori a mercato internazionale. Purtroppo, se non si riesce a superare queste difficoltà appare estremamente improbabile riuscire ad avviare il Mezzogiorno verso una situazione di normalità, in particolare dal punto di vista delle opportunità di lavoro.
Note
[1] La dichiarazione di Draghi ebbe certamente un impatto psicologico importantissimo sui mercati finanziari evidenziato dalla riduzione degli spreads fra i titoli di Stato dell’area euro. In assenza però del riequilibrio competitivo essa non avrebbe potuto evitare la disgregazione dell’area euro. Gli acquisti di titoli di Stato, d’altronde, non derivarono da una decisione discrezionale della BCE, ma furono resi necessari dalla forte riduzione fino a valori addirittura negativi del tasso “naturale” d’interesse provocato da un eccesso mondiale di risparmio rispetto alla domanda di fondi mutuabili (principalmente per l’acquisto di beni per investimenti). A questo eccesso di risparmio contribuì soprattutto l’avanzo della bilancia dei pagamenti della Germania. Appare quindi paradossale che molti in Germania abbiano incolpato Draghi per i bassi tassi d’interesse, determinati invece principalmente dagli elevati risparmi netti della Germania. D’altro canto, la forte diminuzione del tasso naturale d’interesse, provocata dagli avanzi della bilancia dei pagamenti della Germania, ha avuto effetti fortemente positivi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, eppure molti in Italia hanno incolpato la Germania per questi avanzi di bilancia dei pagamenti!
[2] La perdita di competitività rispetto alla Germania fra il 1998 e il 2008 risulta più accentuata di circa il 5 per cento per Italia e Grecia e di circa il 10 per cento per l’Irlanda se misurata in pase al deflatore implicito del PIL (Aquino, 2017, Figg. 3 e 8).
[3] Secondo l’Economist (2005) nel 1998 il tasso di cambio marco-euro era stato concordato a un livello tale da comportare per la Germania il più alto costo del lavoro per unità di prodotto fra tutti i paesi dell’area euro. A causa di questa carenza di competitività, nei primi anni dell’euro la Germania era il “sick man dell’euro”, con alti tassi di disoccupazione e bassa crescita (The Economist, 1999). Secondo Dustmann, Fitzenberger, Schönberg and Spitz-Oener (2014) la flessibilizzazione del mercato del lavoro consentì alla Germania di recuperare competitività trasformandola da “The sick man of the euro” in una “Economic superstar”. Nella lettera inviata al Governo italiano da Draghi e Trichet il 5 agosto 2011, al fine di accrescere il potenziale di crescita, si suggerivano misure analoghe: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione.”
[4] Per esempio Petraglia, Daniele e Aiello (2018).
[5] La logica della determinazione del costo del lavoro relativo di equilibrio fra Nord e Sud dell’Italia può essere illustrata sulla base dell’analisi di Krugman, Obstfeld e Melitz (2015, pp. 57-59). Man mano che diminuisce il costo del lavoro nel Mezzogiorno rispetto al Nord dell’Italia, successive produzioni a mercato internazionale si spostano dal Nord verso il Sud, e quindi anche la domanda di lavoro si sposta dal Nord verso il Sud. L’equilibrio è raggiunto quando la ripartizione della domanda di lavoro fra Nord e Sud eguaglia la ripartizione dell’offerta di lavoro fra Nord e Sud. Per qualsiasi valore del costo relativo del lavoro fra Nord a Sud si ha che al margine il costo relativo del lavoro è uguale alla produttività relativa, poiché l’allocazione delle produzioni deve adattarsi necessariamente al costo relativo del lavoro. Ciò significa che l’eguaglianza fra produttività relativa e costo relativo del lavoro non significa assolutamente che il costo relativo del lavoro è di equilibrio, poiché questa uguaglianza è soddisfatta, a posteriori, per qualsiasi valore del costo relativo del lavoro!
References
Alesina A., Danninger S., Rostagno M., 2001, Redistribution through Public Employment: The Case of Italy, IMF Staff Paters, n. 3.
Aquino A., 2017, Competitive imbalances as the fundamental cause of the the euro area crisis, in Paganetto L. (Ed.), Sustainable Growth in the EU: Challenges and Solutions, Springer, pp. 149-172.
Del Monte A., 1991, Fallimenti del mercato e fallimenti del governo: quale politica per il Mezzogiorno?, Meridiana, n. 11-12.
Dustmann C., Fitzenberger B., Schönberg U., Spitz-Oener A., 2014, From Sick Man of Europe to Economic Superstar: Germany’s Resurgent Economy, Journal of Economic Perspectives—Volume 28, Number 1, pp. 167–188.
The Economist 1999, The sick man of the euro – The biggest economy in the euro area, Germany’s, is in a bad way and its ills are a main cause of the euro’s own weakness, July 3rd.
The Economist, 2005, The euro area may have a single currency, but il still has many different real exchange rates, February 17th.
Istat, 2018, Conti economici territoriali 2017, dicembre.
Keynes J.M. 1925, The economic Consequences di Mr. Churchill, London.
Krugman P. R., Obstfeld M., Melitz M. J. (2015), Economia internazionale, vol. 1, Pearson.
Petraglia C., Daniele V., Aiello F., 2018, Salari, la stretta via per il riequilibrio Nord-Sud, OpenCalabria, 20 giugno 2018.
OECD, Economic outlook, vari anni.