Questo lavoro offre una ricostruzione storica della prima fase dell’Intervento straordinario in Basilicata. Utilizzando fonti dirette della Cassa per il Mezzogiorno, tra cui pubblicazioni statistiche sulle attività dell’ente e verbali dei consigli di amministrazione, il lavoro evidenzia come, dopo i primi anni di operato della Cassa per il Mezzogiorno, in Basilicata si sia registrato un sensibile aumento della produttività agricola.
The first years of intervention by the Cassa per il Mezzogiorno (Casmez) were dedicated to the phase of direct action, that is the policy of financing of territorial reorganization works in the rural areas of the South. Using direct sources of the Casmez, and taking into consideration the literature on the subject, the result of the research highlights the consequent significant increase in Lucanian agricultural productivity after the first years of activity of the Cassa per il Mezzogiorno
L’agricoltura lucana dopo l’Unità. Tra inchieste e progetti d’intervento pubblico
Nell’ambito dei suoi contributi sulla questione agraria del Mezzogiorno, Manlio Rossi Doria si è soffermato spesso sulla situazione economica e sociale della Basilicata (Rossi Doria, 2005). Oltre agli aspetti peculiari della sua agricoltura, caratterizzata da incertezza della proprietà, penuria di capitali, e un’inerzia tipizzante le forme di conduzione, spicca una caratteristica – che si può intendere in senso tangibile – dell’agricoltore lucano: l’isolamento (Cringoli e Potito, 2022). Oltre alla mancanza di una rete di rapporti, l’isolamento era fisico, geografico, a causa della morfologia del territorio e dalla mancanza di infrastrutture.
Ancora oggi l’isolamento rappresenta il principale freno dello sviluppo lucano. Ciò penalizza in particolar modo le aree interne, dove si incontrano grandi difficoltà negli spostamenti e, a causa delle ridotte dimensioni dei centri abitati, non è favorito l’insediamento in loco di imprese e di servizi. Le infrastrutture, al pari degli investimenti produttivi, fanno parte di quel capitale fisico la cui espansione è fondamentale per avviare una politica di sviluppo del Mezzogiorno (D’Antonio, 1988).
Anche se la Basilicata rappresenta una delle regioni più piccole del Mezzogiorno, sia per estensione, sia per numero di abitanti, essa manifesta una notevole complessità strutturale del territorio – inteso come luogo di caratterizzazione fisico-ambientale del microambiente e come sede di maturazione di evoluzione dei processi storici, economici e socio-istituzionali manifestatisi nel tempo (Guglielmi, 2001) – proprio per la sua morfologia: zone di montagna si affiancano a zone costiere, zone isolate ad altre a ridosso di grandi reti infrastrutturali, aree ancora prevalentemente agricole ad altre investite da rapidi processi di industrializzazione. In questo contesto geografico si è consumata la dialettica interna alla questione meridionale tra la «polpa» e «l’osso» (Rossi Doria, 2005). Anche la Basilicata, dunque, storicamente si è inserita nel contesto del «primo doppio divario», tra Nord e Sud e tra aree interne e fascia costiera (Cringoli, 2021).
Confrontando i dati storici forniti dalle indagini Istat, indicizzato con 100 il valore della produzione agricola nei comuni in pianura e lungo la fascia costiera ionica, nelle aree interne la resa della terra valeva 45 nel periodo precedente all’intervento straordinario nel Mezzogiorno (Istat, 2010). Questi valori si mostravano inversamente proporzionali agli andamenti demografici della regione. All’Unità d’Italia circa 280 mila lucani risiedevano in comuni al di sopra dei 1000 metri d’altezza, 187 mila in collina e solo 24 mila in pianura: l’asprezza del territorio e la presenza abitativa nella zona appenninica limitavano il potenziale dell’agricoltura delle aree interne. Nel 1951 la distribuzione della popolazione per fascia altimetrica è riportata nella tabella 1.
Nel corso di 150 anni la demografia lucana non ha subito particolari fluttuazioni; da un confronto su dati Istat regionali emerge che, dai censimenti promossi nei primi 150 anni di Unità nazionale, la popolazione residente in Basilicata, in valore assoluto, risulta essere la più statica del panorama demografico nazionale: da 509 mila abitanti nel 1861 a 577 mila nel 2014 (Istat, 2014).
Fonte: Elaborazione su dati Svimez, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-1961, cit., p. 159.
La stasi demografica della regione è il frutto delle grandi ondate migratorie: dagli anni Ottanta del XIX secolo il saldo migratorio totale fu sempre negativo. Descritto come una caratteristica della cultura lucana degli ultimi 130 anni, il fenomeno migratorio è stato analizzato dai meridionalisti in tutti i suoi aspetti, sia positivi che negativi. Francesco Saverio Nitti è stato tra i primi a descrivere la desertificazione avanzata della regione già agli inizi del XX secolo, quando la densità abitativa presentava soltanto 57 abitanti per chilometro quadrato (Nitti, 1888).
Il fenomeno migratorio raggiunse le sue vette dopo la grave crisi agraria degli anni Ottanta del XIX secolo. Questa crisi, in realtà, mise in evidenza la penuria materiale che il contadino lucano viveva da generazioni, accentuando i malumori dei non proprietari, costretti a sopportare contratti locatari a canoni insostenibili, specie nel potentino. La maggioranza dei contadini risentiva della mancata applicazione dell’eversione della feudalità, voluta dai napoleonidi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat durante il decennio francese. Le disposizioni sull’eversione della feudalità restarono in parte sulla carta, mentre ciò che venne affrancato dai vecchi vincoli feudali fu acquistato da ricchi possidenti, che avevano a disposizione le risorse per accumulare terreni e lasciarli in gestione agli affittuari, causando una stasi nel processo di modifica dei rapporti di conduzione della terra (Scirocco, 1971).
I rapporti di proprietà nelle terre lucane non agevolavano i contadini, anche dopo l’Unità: ciò fu dimostrato dall’inchiesta parlamentare Jacini del 1879-1883 (Jacini, 1976), affidata all’onorevole Branca per la II circoscrizione Lucania-Calabria. La maggiore propensione al brigantaggio in Basilicata probabilmente era stata sostenuta dal rapporto conflittuale con la politica del nuovo regno, che disattese le aspettative sulla ridistribuzione della terra e sul miglioramento delle condizioni lavorative. Branca notò che la produttività del suolo era limitata dalla mancanza di opere di bonifica, dalla persistenza di tecniche agricole di natura estensiva, poche rotazioni e penuria di trebbiatrici. La media e la grande proprietà fondiaria, presente soprattutto nella pianura materana, mostravano una scarsa vocazione all’investimento, restringendo i margini di miglioramento produttivo della zona morfologicamente più predisposta in senso agricolo (Cestaro, 2021). La restante parte della regione, quella appenninica, era suddivisa in piccole proprietà poco redditizie per la natura del suolo. Nel potentino molto diffusa era la pastorizia, ma del tipo più infruttuoso, tra il semi-nomadico e lo stazionario, mancando aziende dedite all’allevamento secondo i modelli adoperati in quel frangente storico in Emilia o in Campania.
La spartizione dei beni ecclesiastici nella fase post-unitaria aveva seguito le stesse tendenze dell’eversione della feudalità, agevolando i ricchi possidenti, ma escludendo di fatto la maggior parte dei piccoli proprietari, dei braccianti o dei coloni. La situazione, dunque, peggiorò con la grave crisi agraria degli ultimi decenni del XIX secolo, quando i prodotti più ricercati dell’agricoltura lucana, come grano, latticini e bestiame, subirono un drastico calo della domanda.
Le difficoltà socio-economiche della Basilicata vennero descritte anche da Zanardelli, quando, nel 1902, in qualità di presidente del consiglio, visitò la regione. L’Inchiesta Zanardelli fu alla base della legge speciale per la Basilicata del marzo 1904, voluta da Giolitti dopo la scomparsa del politico bresciano: con questo atto legislativo venne ufficialmente inaugurata una tipologia di intervento strutturato in favore di una singola regione (Lardino, 1989), dalla quale presero spunto le successive leggi speciali per Napoli e per la Calabria nel 1904 e nel 1906. Per la Basilicata la legge speciale previde una spesa di circa 65 milioni di lire, finalizzata soprattutto alla concretizzazione di opere di bonifica, condotte per la diffusione di acqua potabile, sistemazione edilizia e altro.
Gli effetti di questo primo intervento disattesero le aspettative. Difficoltà burocratiche di ogni sorta rallentarono l’applicazione delle disposizioni, mentre parte dei grandi proprietari terrieri. Tuttavia, la legge speciale per la Basilicata portò all’inaugurazione dell’istituto di credito agrario nella regione e al miglioramento edilizio di diversi centri, soprattutto di Potenza.
In modo analogo, anche il fascismo, nonostante i proclami e l’ideologia ruralista come parte fondante del movimento, non riuscì a risollevare le sorti della regione. Bonifiche e battaglia del grano, ovvero due capisaldi della politica economica del regime, avrebbero dovuto agevolare la crescita economica lucana, ma l’azione fascista spesso arretrava dinanzi alle richieste dei notabili locali e degli agrari, poiché poteva ledere gli interessi di classi sociali che avevano sostenuto la costruzione del regime dalla sua fase embrionale (Cringoli, 2022).
Programmi e interventi per la Basilicata non vennero mai a mancare, specie da parte di intellettuali e politici lucani che si erano formati all’ombra di Nitti e della sua propensione per il tecnicismo. Un esempio è il disegno di bonifica sostenuto da Serpieri, che portò alla formazione di un «decreto Serpieri», che nel 1924 venne accantonato perché considerato lesivo degli interessi precostituiti dei latifondisti meridionali, timorosi dell’invasione di campo del grande capitale finanziario proveniente dal Nord Italia (Di Giorgio, 2021). Nel 1942, in Basilicata risultavano iniziate opere pubbliche solo sul 22% della superficie classificata, mentre la trasformazione fondiaria era stata ultimata solo sullo 0,33% della stessa superficie. La spesa effettuata risultava di 120 milioni (in lire 1948), cioè 12.000 lire ad ettaro a fronte delle 51.000 lire della Puglia. Insomma, una situazione di grande ritardo in quell’azione di bonifica avviata dal fascismo anche rispetto ad altre regioni del Mezzogiorno (Calice, 1978).
Ridurre il divario: l’infrastrutturazione della regione
La situazione della regione lucana agli inizi degli anni Cinquanta era critica, sia dal punto di vista produttivo che sociale. In quota percentuale, il valore aggiunto dell’industria lucana era passato dall’1,32% del totale nazionale nel 1871 allo 0,66% nel 1911, per scendere poi ulteriormente fino al secondo dopoguerra. Tendenze simili vennero rilevate anche per l’indice di industrializzazione relativa: nel periodo 1871-1911 la Basilicata fece registrare un -0,20% (da 0,72% nel 1871 a 0,52% nel 1911). Performance peggiore fu rilevata soltanto per la Sicilia (da 1,1% nel 1871 a 0,73% nel 1911, ovvero -0,37% nell’intero arco temporale considerato) (Fenoaltea, 2001; Istat, 1958). Altro dato significativo è la quota della Basilicata nel PIL italiano; se nel 1871 la regione incideva per l’1,2% sul PIL nazionale, percentuale rimasta pressoché stabile fino al 1901 (1%), dal 1911 la quota scese in modo costante, fino a raggiungere il minimo storico nel momento in cui lo Stato decise di porre rimedio con l’adozione dell’intervento straordinario (0,6% nel 1951) (Felice, 2013).
Secondo l’Inchiesta parlamentare sulla miseria (1951-53), nella regione il 54% delle famiglie era in condizioni “misere”, a fronte del 28% del Mezzogiorno continentale (un dato inferiore solo a quello della Calabria). Il tasso di analfabetismo nel 1951 (popolazione di 6 anni e oltre) era il seguente: Basilicata 29,1% (il più alto d’Italia); Settentrione 4,4%; Centro-Nord 6,4%; Mezzogiorno 24,4%. La Basilicata aveva, inoltre, il più elevato tasso di mortalità infantile in Italia (tab. 2)
Fonte: Istituto centrale di statistica, Tendenze evolutive della mortalità infantile in Italia, Annali di statistica, anno104, VIII, n. 29, Roma, 1975, p. 222.
La Cassa per il Mezzogiorno, nata nel 1950 per iniziativa degli esponenti del nuovo meridionalismo e seguendo l’esempio delle agenzie di sviluppo territoriale inaugurate durante il New Deal, da subito predispose degli interventi per migliorare la produttività del settore agricolo e le infrastrutture del meridione.
Il piano di bonifica integrale, comprendente sistemazioni montane, correzioni idraulico-forestali, idraulico-agrarie, sistemi di irrigazione, strade, ponti, acquedotti, venne impostato nei minimi particolari dal comitato dei ministri per il Sud (Scoppola Iacopini, 2019).
La riforma fondiaria della legge stralcio interessava una superficie di 7.172.000 ha, di cui circa l’85% sovrapponibile ai territori dei comprensori di bonifica e dei perimetri d’intervento montano (Svimez, 1966). Il comitato dei ministri per il Mezzogiorno individuò e affidò alla Cassa 112 comprensori di bonifica e 235 perimetri di sistemazione montana e rimboschimento litoraneo, per complessivi 8.429.000 ha, che un tempo erano stati interessati da improvvisati programmi parziali di recupero (CasMez, 1952). Nei primi anni di attività, i tecnici della CasMez realizzarono sia opere già definite e programmate, sia nuovi progetti rientranti nelle finalità del piano dodicennale della Cassa, teso a incrementare la produttività agricola del Sud (CasMez, 1955). Si puntava alla radicale trasformazione del settore, sostituendo la tipicità estensiva dell’agricoltura di molte aree del Mezzogiorno con pratiche intensive, seguendo il paradigma produttivista insito nel progetto istitutivo dell’intervento straordinario.
Nel primo quinquennio i progetti approvati dal Cda della CasMez nel settore agricolo portarono alla spesa di 218 miliardi di lire: il 34% per opere irrigue, il 30,65% per le sistemazioni idrauliche, il 25,22% per opere stradali e civili, il 7,25% per le sistemazioni montane in comprensorio e la restante parte in studi e ricerche. Per la Basilicata dal 1950 al 1957 fu speso il 10% del totale complessivo degli impegni della Cassa in opere di bonifica, il 16% in bonifica montana e il 4% in bacini montani e litorali (CasMez, 1958).
Dalle origini dell’intervento il territorio lucano fu interessato da 6 comprensori di bonifica e 3 comprensori perimetrici di bonifica montana; alcune aree erano toccate sia da un comprensorio di bonifica, che dalla sistemazione del perimetro montano. Il comprensorio dell’Alta Valle dell’Agri comprendeva 60 mila ettari, per la maggior parte in provincia di Potenza. Per la natura del suolo, il territorio necessitava di sistemazione idraulica e di bonifiche montane. Le difficoltà nella realizzazione del piano si riscontrarono nel frazionamento della proprietà di piccoli appezzamenti di terra ad alta quota, superate nel primo quinquennio con una spesa di 1.943.000.000 di lire, finalizzata alla messa in sicurezza della vallata dalle continue esondazioni: il risultato fu la transizione da tecniche estensive a un’agricoltura intensiva per tutta la zona. Altri interventi di sistemazione idraulico-forestale furono condotti nei comprensori della Basilicata centrale, territorio diviso tra collina e montagna, per un totale di circa 348 mila ettari tra Medio Ofanto, Grottole e Medie Valli dell’Agri e del Sinni (CasMez, p. 128). La Basilicata centrale risultò essere una zona di difficile intervento, poiché valloni e pendii scoscesi dominavano il panorama.
Nella Basilicata centrale i rapporti di conduzione della terra avvantaggiavano pochi grandi proprietari, finché la legge stralcio non espropriò circa 15 mila ettari per ridistribuirli in piccole proprietà. Nei primi sette anni la Cassa destinò alla Basilicata centrale 2,7 miliardi di lire, mentre al termine del piano dodecennale vennero completati i lavori con una spesa di 4,2 miliardi. Nella Lucania centrale i piccoli proprietari nati grazie alla legge stralcio presentarono molti progetti di miglioramento fondiario; solo nel quadriennio 1952-1955 furono approvati quasi 3000 progetti, per una spesa complessiva di 2,3 miliardi di lire (CasMez, 1955, p. 129).
La sistemazione montana risultava indispensabile per garantire lo sviluppo agricolo, ad esempio, delle valli alluvionali del Basento, povere sia di risorse che di bestiame. La riforma fondiaria in quest’area portò all’esproprio di 9500 ettari e nel contempo la Cassa stanziò 2,4 miliardi per le sistemazioni di strade esistenti e per la costruzione di nuove, mentre modesta fu l’iniziativa per arginare le frane, modificare i pendii e modificare, ove necessario, i corsi dei fiumi (CasMez, 1960).
A ciò si aggiunse la necessità di adeguare la rete stradale e gli acquedotti esistenti, le cui condizioni erano sintomo eloquente del grado di arretratezza in cui viveva gran parte della popolazione meridionale.
Negli anni Cinquanta in Basilicata tutti i comuni e le frazioni erano collegati da strutture di alimentazione idrica, grazie ad un sistema di acquedotti costruiti a spese dello Stato nel ventennio che aveva preceduto il secondo conflitto mondiale. Tuttavia, a causa dell’assoluta mancanza di manutenzione, quasi tutte le opere costruite erano andate in rovina, non rappresentando più servizi utilizzabili, soprattutto per la generale instabilità dei terreni, tipica della Regione (CasMez, 1955, p. 317).
Questi lavori di ripristino degli impianti furono inclusi nel piano decennale della Casmez, per un importo (presunto) di 5 miliardi di lire (cifra in seguito rivelatasi però insufficiente): si pensava ad opere che potessero aumentare la portata degli acquedotti, adeguandola ai fabbisogni futuri. In particolare, si prevedeva la costruzione di un quarto impianto, dalle sorgenti del Frida, che avrebbe sottratto dai tre preesistenti acquedotti diversi comuni.
Per la scarsezza di popolazione e per le impervie zone interne – montuose, frastagliate e solcate da profonde gole di fiumi dai terreni spesso molto instabili -, a metà degli anni Cinquanta la Basilicata appariva come l’ultima regione d’Italia per densità di strade (km. 0,275 per kmq di superficie). D’altronde, l’incisività degli interventi derivanti da leggi speciali era stata limitata, ottenendo risultati poco modesti, proprio a causa del numero esiguo di abitanti della zona e delle ridotte necessità di trasporto e spostamenti. Come mostra la Tabella 3, da un raffronto con le altre regioni, anche meridionali, in Basilicata il numero dei km di strade percorribili erano molto ridotto: ad esempio, per 1.000 kmq di superficie, nel 1951 la Basilicata presentava soltanto 279 kmq di strade, rispetto ai 408 del Meridione e ai 793 del Nord Italia.
Fonte: Elaborazione su dati Svimez, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-1961, Roma, 1961, p. 487.
Tra il 1950 e il 1955 la Cassa destinò 4.073 milioni di lire per le sistemazioni stradali lucane. Tra i criteri di intervento adottati, spiccava l’importanza attribuita all’ampio programma di bonifica e costruzione stradale da attuare nel Metapontino, zona di traffici in continuo incremento per il promettente svilupparsi della zona bonificata; in secondo luogo si intendeva collegare alcune zone totalmente prive di vie di comunicazione, con strade ritenute essenziali per la valorizzazione della regione, e necessarie anche per intensificare i collegamenti con le zone limitrofe della Puglia e dell’alta Calabria.
Le sistemazioni stradali, realizzate grazie ai fondi messi a disposizione dalla Cassa, hanno riguardato il miglioramento di circa 757 chilometri sui 1.381 di strade provinciali esistenti nella regione nel 1950, quando solo la viabilità limitrofa alla provincia di Potenza era stata oggetto di sistemazione.
Oltre alla sistemazione, il programma della Cassa prevedeva anche la costruzione di nuove strade, ispirandosi a criteri di organicità e di produttività, determinanti per il miglioramento delle comunicazioni e quindi per lo sviluppo della regione.
3. Conclusioni
Il piano della Cassa nei primi sette anni, ovvero nella fase di infrastrutturazione, dimostra la fermezza dello Stato nel tentativo di superare il divario storico tra due aree differenti del Paese, preparando il Mezzogiorno per il lancio successivo del programma di industrializzazione, da sempre al centro dell’idea d’intervento della SVIMEZ e del nuovo meridionalismo. Le infrastrutture create in Basilicata, come nel resto del Sud Italia, sostennero la domanda di diversi settori: edilizio, meccanico, elettrico, chimico, siderurgico e altri. Per individuare i benefici apportati alla popolazione lucana bisogna sottolineare il punto di partenza della stessa e la successiva espansione dei consumi.
L’infrastrutturazione della regione e gli altri interventi portarono, indirettamente, ad esempio, all’incremento del consumo pro-capite di bestiame macellato, di energia elettrica, di tabacco; aumentarono gli abbonati ai servizi telefonici e alle radioaudizioni, le spese per gli spettacoli e per i cinema (Svimez, 2011).
Nei primi sette anni di vita della CasMez la produttività agricola aumentò dell’8% rispetto alla media nazionale. Dunque, questo sensibile miglioramento della qualità della produzione segnò un cambiamento di tendenza rispetto al passato. Grazie all’azione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, nel contesto della macro-area, come prevedibile, i maggiori incrementi della produttività si registrarono nelle regioni precedentemente più depresse economicamente, come Basilicata e Calabria. Nonostante ciò, la popolazione lucana al censimento del 1951 era di 628,000 abitanti; tra il 1951 e il 1961 la Basilicata ebbe un saldo migratorio di -54.689 abitanti per emigrazione verso altre regioni. A questi si aggiunsero 93.000 espatri, per un saldo (al netto dei rimpatri, di circa 51.000 emigrati verso l’estero).
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