Come in altri paesi, anche in Italia esistono divari territoriali nella produttività del lavoro, nei salari e nei prezzi. Il divario tra Sud e Centro-Nord nella produttività, misurata dal valore aggiunto per addetto, è di circa il 30%, mentre la differenza nel salario medio del 25%. Nelle due aree, il rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto (Clup) è, però, simile: ciò indica che i divari di produttività sono “apparenti”, cioè sostanzialmente dipendono dalle caratteristiche delle strutture produttive regionali. Nel Nord, dove la struttura produttiva è più avanzata e, dunque, la quota di lavoratori con elevate retribuzioni è maggiore rispetto al Sud, il salario medio è più elevato. Nello stesso tempo, però, anche il livello dei prezzi è più alto. Ciò ha notevoli conseguenze. Tenendo conto dei prezzi, la differenza nel salario medio (e nel reddito pro capite) tra le due aree si riduce considerevolmente. Nel Sud, grazie ai prezzi più bassi, a parità di reddito, il potere d’acquisto è maggiore che al Nord. Produttività, salari medi e prezzi sono tra loro interrelati e, in ultima analisi, dipendono dalle caratteristiche delle strutture produttive regionali.
1. Introduzione
In tutti i paesi esistono disuguaglianze regionali nella produttività del lavoro. L’Italia non fa eccezione. Nell’industria e nei servizi (con esclusione di quelli finanziari), la differenza nel valore aggiunto per addetto tra Mezzogiorno e Centro-Nord è di circa il 30%. Pur significativi, i divari nella produttività tra le regioni italiane sono, comunque, inferiori a quelli di altre nazioni europee.
I livelli di produttività vanno considerati in relazione ai salari. In Italia, per ciascun settore e per ciascuna mansione, le retribuzioni sono fissate con contratti collettivi, pertanto sono sostanzialmente uguali in tutto il paese[1]. Secondo una tesi periodicamente riproposta, l’uguaglianza dei salari, a fronte dei divari nella produttività, determinerebbe nelle regioni meridionali una più elevata incidenza del costo del lavoro rispetto a quelle centrosettentrionali (Boeri et al., 2021). Ciò si tradurrebbe in minore competitività e più elevati tassi di disoccupazione e lavoro nero (Garnero e Lucifora, 2021). Per tale ragione, secondo i sostenitori di tale tesi, la contrattazione centralizzata sarebbe fonte d’inefficienze e andrebbe sostituita con quella decentrata, al fine di allineare i salari nominali ai livelli locali di produttività.
Questa tesi si basa su presupposti erronei. La produttività media regionale è un aggregato che dipende dalle caratteristiche delle strutture produttive e occupazionali, pertanto va confrontata con il salario medio regionale, non con i salari individuali o in specifici comparti. I dati mostrano come in Italia, qualunque sia il livello territoriale considerato, produttività del lavoro e salari medi siano strettamente correlati, mentre l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto (CLUP), per il complesso dei settori economici, è molto simile tra Nord e Sud (Aiello et al., 2018; Tridico, 2018; Daniele, 2018, 2021).
Come accade tra paesi diversi per sviluppo economico, le differenze Nord-Sud nella produttività, nei redditi e nei salari medi si associano con quelle nei livelli dei prezzi. Ciò comporta notevoli conseguenze: il differenziale nei prezzi riduce quello nel salario medio; tuttavia, a parità di retribuzione, nel Sud il potere d’acquisto è maggiore che al Nord. I prezzi si riflettono anche sul fatturato – e, dunque, sul valore aggiunto – delle imprese nei settori che producono beni e servizi venduti nei mercati locali. Come accade a livello internazionale, anche a livello regionale, produttività, salari e prezzi medi sono interrelati.
Riprendendo alcuni lavori sul tema (Aiello et al., 2018; Daniele e Viesti, 2019; Daniele, 2018, 2021), nelle pagine seguenti si esaminano i dati sulla produttività e sui salari nelle regioni italiane. Si esaminano, poi, le differenze Nord-Sud nei prezzi. Si discutono, infine, le implicazioni per l’analisi dei divari regionali di sviluppo.
2. Produttività e salari
2.1. Un confronto internazionale
In tutti i paesi, la distribuzione geografica delle attività economiche è disomogenea. Oltre che la densità delle imprese, le disuguaglianze territoriali riguardano la composizione della struttura economica per settori, la dimensione media delle unità produttive, le tipologie e i prezzi dei beni e servizi prodotti e la presenza d’imprese multinazionali o esportatrici (Xiao et al. 2018; Bianchi et al., 2021). Da queste differenze discendono quelle nella produttività, nei salari e nei redditi medi.
La figura 1 mostra un indicatore di disparità regionale nella produttività del lavoro (il coefficiente di variazione) in alcuni paesi europei. La produttività è misurata dal valore aggiunto per occupato in parità di potere d’acquisto (PPA)[2]. La comparazione è effettuata tra le unità territoriali definite dall’Ocse come large regions che, nel caso italiano, corrispondono alle regioni e alle province di Trento e Bolzano[3]. Sulla base di questi dati, il grado di disuguaglianza regionale in Italia risulta inferiore a quello di Polonia, Inghilterra e Francia e non dissimile da quello della Germania. In tutti i paesi, la produttività tende a essere più alta nelle regioni metropolitane e a diminuire man mano che ci si allontana da esse (OECD, 2022a). In alcuni casi, come in Francia e nel Regno Unito, gli elevati valori delle regioni in cui si trova la capitale influenzano significativamente la disuguaglianza interna.
La figura 2 mostra la distribuzione della produttività del lavoro in 78 regioni francesi, tedesche, italiane, del Regno Unito e della Spagna. Al vertice della graduatoria si collocano la popolosa regione dell’Ile de France, che include Parigi, e quella che comprende Londra (Greater London) la cui produttività è circa il doppio di quella del North East England e della Calabria che si trovano all’estremo inferiore[4]. Tra le regioni con più elevata produttività vi sono la Lombardia, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta, i cui livelli sono circa il 75% di quelli della regione parigina e di quella londinese.
Tra le regioni con minore produttività troviamo, con valori molto simili, alcune del Sud Italia, del Regno Unito, della Germania e della Spagna: Sassonia, Sardegna, Yorkshire, Meclemburgo-Pomerania, Murcia, Galles, Turingia, Puglia, North East England, Calabria. In sintesi, nei paesi europei la distribuzione regionale della produttività presenta variazioni ampie, in alcuni casi maggiori di quella che si osserva in Italia. Sotto quest’aspetto, il Mezzogiorno non è affatto un caso unico.
2.2. Le regioni italiane
Esaminiamo ora i dati sul valore aggiunto e sulle retribuzioni per addetto nelle regioni italiane. I dati, di fonte Istat (2021), si riferiscono a 4,5 milioni di unità locali dei settori industriali e dei servizi, con l’esclusione del settore pubblico e di alcune divisioni dell’intermediazione monetaria e finanziaria, delle assicurazioni e dei servizi domestici.
La figura 3 illustra i livelli del fatturato, del valore aggiunto per addetto e del salario medio nelle ripartizioni territoriali in percentuale del Nord. Nel 2019, nel Mezzogiorno, il fatturato per addetto e la produttività erano inferiori del 34%, e il salario medio del 26%, rispetto all’area più sviluppata del paese.
Tutte le regioni meridionali hanno livelli di produttività e salari medi inferiori rispetto a quelle del Centro-Nord (figura 4). Nel 2019, in Lombardia la produttività media per addetto (59.540 euro annui) era quasi il doppio di quella della Calabria (30.700 euro), mentre la retribuzione media era del 38% più alta. Per l’aggregato dei settori, e senza tenere conto delle differenze nella composizione degli occupati, il differenziale nella produttività risultava più ampio di quello nella retribuzione media. È interessante notare il gradiente nelle due variabili: in Toscana e Liguria la produttività media è l’80% di quella della Lombardia, scende a circa il 70% nelle Marche, in Umbria e in Abruzzo, al 60% nelle regioni meridionali, fino al 53% della Calabria.
Come mostra la figura 5, la relazione tra produttività e salari medi regionali è molto elevata (R2 = 0,94). Ciò implica che la dispersione nel costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), approssimato dal rapporto tra retribuzioni e valore aggiunto, è contenuta. Per il complesso dei due settori economici, nel 2019, il CLUP era del 39% al Nord, del 37,6 nel Centro e del 40,5% nel Mezzogiorno. Non vi era, invece, alcuna differenza nel rapporto tra retribuzioni e fatturato (un indicatore della capacità delle imprese di coprire i costi e di remunerare gli altri fattori della produzione) che, in aggregato, era pari al 10,5% nel Mezzogiorno, del 9,1% nel Centro e del 10,2% nel Nord[5].
Questi dati vanno presi con cautela. L’aggregazione dei valori riguardanti le singole imprese per ottenere la produttività e il CLUP presenta, infatti, rilevanti problemi metodologici (Felipe e McCombie, 2014). Come si dirà meglio più avanti, entrambe le variabili dipendono dalla composizione settoriale e occupazionale delle strutture produttive. Si consideri il CLUP. In aggregato, esso è dato dal rapporto tra le retribuzioni corrisposte ai dipendenti e il valore aggiunto prodotto da tutti i lavoratori, dipendenti e autonomi. Com’è evidente, questo rapporto è influenzato dalle quote relative dei due gruppi di lavoratori che, infatti, differiscono tra le regioni: nel Meridione i dipendenti rappresentano circa il 68% degli addetti totali, nel Centro il 72% e nel Nord il 74% (Istat, 2022).
Per un confronto con dati più omogenei, consideriamo le imprese con dipendenti escludendo, dunque, gli autonomi. Utilizziamo i dati sul costo del lavoro desunti dai bilanci di circa 160.000 piccole e medie e imprese (PMI), tra 10 e 249 dipendenti, operanti nei settori dell’industria e dei servizi (Confindustria-Cerved, 2022). Da questi risulta come, nel 2019-20, l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto fosse del 69,3% nel Mezzogiorno a fronte del 70% della media italiana (Confindustria-Cerved, 2022). Una differenza veramente esigua e, comunque, a vantaggio del Mezzogiorno.
Come mostra la figura 6, il CLUP variava tra il 79,6% della Sardegna e il 63% della Valle d’Aosta. In Sicilia, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, regioni con bassa produttività, era inferiore a quello di regioni con elevata produttività come Lombardia, Liguria, Piemonte. Ciò significa che i divari Nord-Sud, per il complesso dei settori economici, dipendono dall’eterogeneità delle strutture produttive e occupazionali: se così non fosse, il CLUP dovrebbe essere maggiore nelle regioni con più bassi livelli di produttività. Ciò non esclude che ci possano essere differenze, anche significative, nel CLUP in specifici comparti e per alcune imprese.
Questi risultati sono coerenti con i principali indici di redditività delle PMI. Nel 2019-20, il rapporto tra utili e fatturato nel Mezzogiorno è stato mediamente del 4,7%, a fronte del 5% del Nord. Anche i dati sul ROE (utile/patrimonio netto) non mostrano significativi scostamenti tra le ripartizioni; anzi, nel 2019, il ROE (ante imposte e gestione straordinaria) delle PMI è stato dell’11,6% nel Mezzogiorno a fronte del 10,8% medio nazionale; nel 2020, tenendo conto della crisi pandemica, quest’indice è stato, rispettivamente, del 9,6% e dell’8,3% (Confindustria-Cerved, 2022). Questi dati suggeriscono che l’incidenza del costo del lavoro – per come rappresentata dai dati di bilancio – non è, per l’aggregato dei settori, sostanzialmente dissimile nelle diverse aree del paese.
3. I prezzi
In tutti i paesi, le disparità spaziali nella produttività e nei salari si accompagnano a quelle nel livello dei prezzi (Janský e Kolcunová, 2017; Costa et al., 2019). Per quelli europei, la mancanza di rilevazioni ufficiali dei prezzi regionali, è parzialmente colmata dai risultati di alcune ricerche sperimentali condotte dagli uffici statistici e dalle stime elaborate dagli studiosi con diverse metodologie.
Per l’Italia, stime per i 20 capoluoghi di regione sono state fornite dall’Istat (2010), che ha riportato una differenza dell’11% nei prezzi medi tra le città “più care” e quelle “più economiche”. Includendo gli affitti imputati[6], Cannari e Iuzzolino (2009) hanno calcolato una differenza del 17% tra Sud e Centro-Nord, con un massimo del 25% tra la Calabria e la Lombardia. Un divario nei prezzi di circa il 15% tra Centro-Nord e Mezzogiorno sembra aver caratterizzato l’Italia sin dall’Unità, essendo stato stimato anche per il periodo 1862-78, per quello 1923-38 e, mediamente, per gli anni dal 1951 al 2011 (Daniele e Malanima, 2017; Amendola e Vecchi, 2017).
In tutti i paesi i prezzi variano in relazione ai livelli di sviluppo economico regionali. Secondo le stime, in Spagna la differenza nel potere d’acquisto tra le Comunità autonome di Castilla-La Mancha e Madrid sarebbe di circa il 30% (Costa et al. 2015, 2019); in Germania, la differenza tra Amburgo e Sassonia-Anhalt sarebbe di circa il 16% (Costa et al., 2019); nel Regno Unito, tra le regioni del Nord e quelle del Sud ci sarebbe una variazione nei prezzi di circa il 10% che supererebbe il 30% considerando la regione di Londra (Hearne, 2020).
Per approssimare i livelli dei prezzi nelle macroregioni italiane utilizziamo le soglie di povertà assoluta, calcolate annualmente dall’Istat. Queste soglie si riferiscono al valore monetario di un paniere di beni e servizi che soddisfa i bisogni primari di una famiglia italiana (Istat, 2009). Il paniere di povertà è composto da 106 “prodotti elementari” che rientrano in sei componenti: cibo, abitazione, riscaldamento, energia elettrica, beni durevoli e una “componente residuale” che include la manutenzione delle abitazioni e le spese per sanità, istruzione, trasporti, abbigliamento, comunicazioni e altro (Istat, 2009). Le soglie di povertà sono differenziate per dimensione familiare, per distribuzione geografica (Nord, Centro e Sud) e per tipologia di comune. Anche se il paniere di povertà non è rappresentativo dell’insieme dei consumi di tutte le famiglie ma, ragionevolmente di quelle a basso reddito, il suo costo nelle diverse aree del paese rappresenta un deflatore implicito dei prezzi.
La tabella 1 riporta le soglie di povertà assoluta per una famiglia composta da due persone (15-59 anni). Nel 2021, al Sud il prezzo del paniere era inferiore del 16% rispetto al Centro e del 22% rispetto al Nord. Queste differenze, rimaste sostanzialmente stabili nell’ultimo decennio, sono simili a quelle riportate negli studi citati[7].
Utilizziamo il deflatore dei prezzi così ottenuto per calcolare il salario medio reale nelle macroregioni. Come mostra la figura 7, il divario Nord-Sud, che nel salario nominale medio è di circa il 26%, si riduce ad appena il 6% per il salario reale medio. Se consideriamo il reddito disponibile pro capite, il divario passa da circa il 35% nominale al 17% in termini reali[8].
La differenza nei prezzi tende a uguagliare il salario medio nelle tre macroregioni; tuttavia, nel Sud, grazie ai prezzi più bassi, tutti i lavoratori hanno, a parità di retribuzione, un potere d’acquisto del 20% maggiore dei loro colleghi del Nord. Questo risultato, che può sembrare controintuitivo, deriva dal fatto che il salario nominale medio in ciascuna regione non dipende dalle retribuzioni per le singole mansioni, che sono uguali in tutto il paese, bensì dalla composizione della base occupazionale. In altre parole, nelle regioni meridionali, in cui la quota di lavoratori con elevate retribuzioni è minore, il salario medio è più basso; nello stesso tempo, però, grazie ai prezzi più bassi, a parità di reddito, il potere d’acquisto è più alto che al Nord (cfr. Daniele, 2021).
L’utilizzo delle soglie di povertà come indice spaziale dei prezzi ha evidenti limiti. Tuttavia, anche assumendo che il divario tra Centro-Nord e Sud sia del 15% – come calcolato negli studi citati – i risultati sostanzialmente non cambiano. I prezzi medi sono correlati ai salari medi, mentre al Sud – a parità di retribuzione – il potere d’acquisto è comparativamente maggiore.
Ricerche riferite ad alcuni paesi, come Germania, Polonia e Russia, mostrano come i livelli salariali, insieme con altri fattori tra cui la densità della popolazione, siano tra le determinanti più importanti delle differenze interregionali nei prezzi (Roos, 2006b; Perevyshin et al. 2019). A cambiare sono principalmente i prezzi dei servizi, degli affitti e degli immobili[9]. Anche in Italia i prezzi degli immobili presentano ampie differenze regionali e locali e sono positivamente correlati alla densità della popolazione, al reddito e ai salari medi (Casolaro and Fabrizi, 2018; Daniele, 2021). È bene precisare, che il potere d’acquisto differisce non solo tra Nord e Sud, ma anche all’interno di ciascuna regione a causa dell’ampia variabilità dei prezzi degli immobili e degli affitti che si riscontra tra aree metropolitane e piccoli centri (Belloc et al., 2018).
I livelli dei prezzi si riflettono anche sui ricavi e, di conseguenza, sul valore aggiunto delle imprese (Zymek e Jones, 2020). Un esempio può essere utile. Secondo un’indagine, nel 2021, a Milano il prezzo medio di un taglio di capelli per uomo era di 21,5 euro a fronte dei 14 di Catanzaro (Codacons, 2021). Di conseguenza, a parità di clienti, un parrucchiere di Milano ottiene ricavi del 34% più alti di uno di Catanzaro. La differenza nei prezzi impatta – in misura diversa – sul fatturato e, probabilmente, sulla produttività espressa in valore nominale delle imprese che producono servizi i cui prezzi si determinano sui mercati locali.
In aggregato, tale effetto può essere rilevante anche per il settore delle costruzioni, date le notevoli differenze nei valori degli immobili che si registrano a livello regionale e subregionale. I confronti di produttività dovrebbero, perciò, essere effettuati in termini reali.
4. Discussione e conclusioni
La produttività è un concetto microeconomico che, propriamente, si riferisce al rapporto tra output e input misurati in termini fisici. Quando è riferita ai lavoratori della stessa impresa, o d’imprese simili che producono beni omogenei, la produttività può essere considerata una misura d’efficienza, ma non può esserlo quando si confrontano imprese che producono beni diversi o, a maggior ragione, territori (Beatty C., Fothergill S., 2020).
Il valore aggiunto di un territorio è l’aggregato monetario dei beni e servizi prodotti da tutte le imprese. Poiché i territori hanno strutture produttive e occupazionali eterogenee, quando si confronta il loro valore aggiunto si confrontano aggregati che, pur essendo espressi nella stessa unità di misura, sono intrinsecamente differenti. L’eterogeneità non riguarda, infatti, solo la composizione settoriale, le dimensioni delle unità produttive, la presenza di imprese multinazionali ed esportatrici, ma anche altri aspetti[10]. Anche all’interno degli stessi comparti e degli stessi gruppi dimensionali, infatti, le imprese non sono omogenee.
Si consideri l’eterogeneità nei prodotti. Nei mercati di concorrenza monopolistica, prevalenti nella maggior parte dei settori economici, i prodotti sono differenziati per caratteristiche materiali o immateriali: si pensi, per esempio, ai beni alimentari, all’abbigliamento o ai servizi specializzati come quelli di consulenza. Proprio perché differenziati, i prodotti hanno prezzi di mercato diversi. I prezzi di vendita si riflettono sui ricavi e sul valore aggiunto delle imprese, influenzando le stime di produttività o d’efficienza, anche se condotte sulla base di micro-dati (Cusolito e Maloney, 2018; Camagni et al., 2022). Infine, sia le dinamiche, sia i livelli della produttività aggregata sono influenzati dalla domanda di beni e servizi, da cui dipendono il volume delle vendite, il fatturato e il mark-up delle imprese (Syverson, 2011; Cusolito e Maloney, 2018).
Differenze spaziali nella produttività del lavoro esistono in tutte le nazioni e si associano a quelle nei salari, nei prezzi e in altre variabili socioeconomiche. L’Italia rappresenta un caso di particolare interesse. I dati mostrano come nei settori dell’industria e dei servizi, tra Mezzogiorno e Centro-Nord ci sia un divario di circa il 30% nel fatturato e nel valore aggiunto per addetto e del 25% nel salario medio.
È interessante osservare come sia la produttività, sia il salario medio mostrino, con alcune eccezioni, un gradiente Nord-Sud. Per esempio, in Toscana e Liguria sono circa l’80% di quelli della Lombardia, nelle Marche, in Umbria e Abruzzo il 70%, e circa il 60% in quasi tutte le regioni meridionali. A livello regionale, produttività e salari medi sono strettamente correlati, mentre dai dati di bilancio delle PMI non risultano differenze significative nel costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) tra Nord e Sud. Poiché per ciascun settore e ciascuna mansione, le retribuzioni nominali sono uguali in tutto il paese, le differenze spaziali nel salario medio dipendono, sostanzialmente, dalla composizione della struttura occupazionale[11].
Tali evidenze hanno importanti implicazioni per le comparazioni dei livelli di produttività e d’efficienza tra Nord e Sud. Infatti, se i livelli di produttività (d’efficienza) nel Sud fossero, a parità di condizioni, effettivamente inferiori a quelli del Nord, data l’uguaglianza nei salari nominali, l’incidenza del costo del lavoro sul valore aggiunto dovrebbe essere proporzionalmente maggiore e i profitti minori. Ciò non è supportato dai dati. Inoltre, dati i margini di utile (che per le PMI si attestano, mediamente, attorno al 5% del fatturato), ampi divari di produttività sarebbero, in molti settori, insostenibili per le imprese meridionali. La sostanziale uguaglianza nel CLUP e negli indicatori di redditività indica che i divari nella produttività media tra Nord e Sud sono “apparenti”, ovvero dipendono essenzialmente dalle caratteristiche delle rispettive strutture industriali.
Come accade in tutti i paesi, tra le regioni italiane differiscono i salari ma anche i prezzi. Secondo le stime, il differenziale nei prezzi tra Nord e Sud è del 15-20%. Pertanto, la differenza nel salario medio si riduce, in termini reali, al 5-10%. Tuttavia, in conseguenza del minor livello dei prezzi, a parità di salario nominale (o di reddito disponibile), il potere d’acquisto al Sud è del 15-20% più alto che al Nord. Il potere d’acquisto così calcolato non tiene conto dei divari nella qualità e disponibilità di servizi pubblici, che incidono sul tenore di vita e sulla spesa delle famiglie, tra le due aree (D’Alessio, 2018a, 2018b; Busetta e Quirino, 2021). È il caso di ricordare, poi, che nel Mezzogiorno, a causa dell’elevato tasso di disoccupazione, il reddito disponibile per abitante è, in termini nominali, il 66% di quello del Centro-Nord.
Come accade tra le nazioni, anche tra le regioni le differenze nei prezzi dipendono, principalmente, dai prezzi dei servizi, che riflettono le condizioni dei mercati locali, e degli affitti. È presumibile che, analogamente a quanto riscontrato in altri paesi, a livello regionale e subregionale, i prezzi dipendano, in parte, dai redditi medi: del resto, la possibilità di poter praticare prezzi più o meno alti dipende dalle condizioni della domanda.
Nelle regioni settentrionali, in particolare nelle città più grandi, dove la struttura produttiva e occupazionale determina livelli di fatturato, di produttività e redditi medi nominali più elevati rispetto al Sud, esistono condizioni di domanda compatibili con prezzi più alti per molti servizi e per gli immobili.
I livelli dei prezzi si riflettono sul fatturato e sul valore aggiunto delle imprese che producono beni e servizi venduti sui mercati locali[12]. Ne consegue che i confronti regionali di produttività, così come quelli basati su dati a livello d’impresa, andrebbero aggiustati per tener conto dei prezzi. Nel Nord e nel Sud, produttività, salari e prezzi sono interrelati. Per molti aspetti, i divari tra le due aree sono analoghi a quelli tra paesi con livelli di sviluppo diversi.
Note:
[1] La contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro è prevalente nell’Unione europea, sebbene vi siano differenze nei livelli di negoziazione dei contratti (nazionale settoriale, territoriale, aziendale). In Italia e Francia, per esempio, il livello di contrattazione è nazionale e settoriale, in Spagna settoriale di rilevanza nazionale e territoriale, in Germania è prevalente la contrattazione collettiva settoriale, con accordi tipicamente conclusi a livello regionale (cfr. Tomassetti, 2014; Pedersini e Molina, 2022). In Italia, può essere attuata anche la “contrattazione di secondo livello” che, entro limiti stabiliti, consente di adattare il rapporto di lavoro alle esigenze aziendali; per quanto riguarda i salari minimi, i contratti di secondo livello possono apportare solo modifiche migliorative.
[2] I dati si riferiscono al 2019. Nel 2020, il valore aggiunto per addetto ha fortemente risentito degli effetti della crisi pandemica. Comunque, i livelli annuali della produttività, come quelli del Pil pro capite, sono fortemente correlati: di conseguenza, i divari tendono ad essere persistenti nel tempo.
[3] L’Ocse classifica le regioni subnazionali in due categorie: le grandi (livello territoriale 2, TL2) e le piccole regioni (livello territoriale 3, TL3). Le grandi regioni corrispondono generalmente ai livelli governativi immediatamente inferiori a quello nazionale o federale e, nel caso della UE, coincidono con il livello NUTS 2, mentre le piccole sono suddivisioni sub-regionali corrispondenti alla nomenclatura NUTS 3 (OECD, 2022b).
[4] L’Ile de France ha 12,3 milioni di abitanti mentre Greater London 9 milioni.
[5] Ovviamente, i dati di bilancio non tengono conto dell’economia sommersa, cioè delle sotto-dichiarazioni dei redditi e del lavoro irregolare, la cui incidenza, tutt’altro che marginale, è maggiore nel Mezzogiorno. Nel 2020, l’economia non osservata (comprendente il sommerso e il lavoro irregolare) rappresentava, secondo le stime dell’Istat, il 16,8% del valore aggiunto nel Mezzogiorno e il 10% nel Centro-Nord (Istat, 2022).
[6] L’affitto figurativo o imputato rappresenta la spesa che le famiglie proprietarie dell’immobile in cui vivono dovrebbero sostenere per prendere in affitto un’analoga unità abitativa. Nel calcolo dell’inflazione, l’Istat non considera gli affitti imputati, bensì quelli effettivi.
[7] La differenza tra le ripartizioni rimane sostanzialmente la stessa anche quando si considerano famiglie di diversa ampiezza.
[8] Nel 2019, il reddito disponibile era di 22.300 euro annui nel Nord, di 20.300 nel Centro e di 14.400 euro nel Sud (Istat,
[9] Ciò si osserva in tutti i paesi. Si vedano, per esempio: Karády e Koren (2009), Stroebel e Vavra (2019), Weinand e von Auer (2020).
[10] In tutti i paesi, le multinazionali hanno, generalmente, livelli di produttività più alti delle imprese nazionali (Haldane, 2017).
[11] In qualche misura, i divari salariali sono, in parte, spiegati anche dalla contrattazione di secondo livello e, soprattutto nelle regioni meridionali, da pratiche di sotto-inquadramento dei lavoratori o da altre irregolarità.
[12] Si considerino, a tal proposito, le enormi differenze Nord-Sud nel fatturato che si riscontrano in diversi settori. Per esempio, nel 2019, il fatturato per addetto nelle attività professionali (sezione M della classificazione Ateco) era di 204.000 euro a Milano a fronte dei 36.000 euro di Crotone (Istat, 2021).
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