La motivazione fondamentale delle richieste di maggiore autonomia da parte di alcune regioni del Nord dell’Italia, e in particolare da parte di Lombardia, Veneto, ed Emilia Romagna, è rappresentata dalla geografia dei “residui fiscali”, vale a dire della differenza fra entrate pubbliche e spese pubbliche a livello regionale. Questa differenza è significativamente positiva per gran parte delle regioni del Nord dell’Italia, con un valore particolarmente elevato per la Lombardia, e fortemente negativa per le regioni del Sud dell’Italia. La differenza fra Nord e Sud dal punto di vista del residuo fiscale ha origine principalmente dal lato delle entrate fiscali e contributive, il cui valore per abitante è molto più alto nelle regioni del Nord. Dal punto di vista della spesa pubblica per abitante non sembrano esserci invece differenze particolarmente significative fra Nord e Sud dell’Italia[1]. Le differenze dal lato delle entrate fiscali e contributive fra Nord e Sud dell’Italia derivano principalmente dal tasso di occupazione regolare eccezionalmente basso nelle regioni del Mezzogiorno[2]. Oltre a ciò, sia i redditi nominali per lavoratore, soprattutto nel lavoro autonomo, sia i redditi non da lavoro per lavoratore, sono più alti nelle regioni del Nord.
A livello politico questo problema fu all’origine della nascita della Lega-Nord negli anni novanta del secolo scorso, con un programma di natura a volte esplicitamente secessionista. Per cercare di arginare le velleità secessioniste, nel 2001 il Governo di Centro-sinistra presieduto da Giuliano Amato si fece promotore di una modifica del titolo quinto della Costituzione, che ampliava significativamente gli spazi di autonomia delle regioni a statuto ordinario. Il problema sembrava essere stato per alcuni anni sostanzialmente accantonato mentre la Lega Nord era al Governo con Forza Italia.
A livello pubblicistico il tema degli squilibri regionali dal punto di vista del residuo fiscale fu ripreso con molta enfasi nel 2010 da Luca Ricolfi con il libro “Il sacco del Nord”. A livello politico il problema fu di nuovo posto al centro dell’attenzione da Roberto Maroni nel 2012-2013 in occasione della sua candidatura per la Presidenza della Regione Lombardia. Il programma di Maroni prevedeva un aumento significativo (da circa il 67% a circa il 75%) della percentuale delle imposte e dei contributi pagati dai residenti in Lombardia da spendere per finanziare servizi pubblici per gli abitanti della Lombardia. Il 22 ottobre 2017 si svolsero in Lombardia e Veneto referendum consultivi a sostegno delle richieste di autonomia. Al referendum partecipò il 38% degli aventi diritto in Lombardia e il 57% in Veneto; oltre il 90% dei votanti votò a favore di una maggiore autonomia. La richiesta di una maggiore autonomia fu avanzata anche dall’Assemblea Regionale dell’Emilia Romagna, che non aveva ritenuto opportuno indire un referendum a sostegno di questa richiesta. Il 28 febbraio 2018 il Governo di centro-sinistra presieduto da Paolo Gentiloni firmò una pre-intesa con i Governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che prevedeva di ampliare le competenze delle regioni per 23 materie per Lombardia e Veneto e per 12 materie per l’Emilia Romagna. In tutti e tre gli accordi preliminari le materie di prioritario interesse regionale oggetto del negoziato nella prima fase della trattativa erano: Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, Tutela della salute, Istruzione, Tutela del lavoro, Rapporti internazionali e con l’Unione europea. Tutte e tre le regioni si erano riservate la possibilità di estendere il negoziato ad altre materie. L’Accordo preliminare con la Lombardia, a differenza di quelli con l’Emilia-Romagna e il Veneto, faceva espressa menzione, quale oggetto di un eventuale successivo accordo, di materie di interesse delle autonomie locali, quali il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e il governo del territorio.
L’attuazione dell’autonoma regionale differenziata è stata inclusa nel contratto alla base dell’accordo di Governo fra Lega e 5 stelle. A luglio 2019 il percorso di attuazione è ancora in itinere, con significativi contrasti fra Lega e 5 stelle; i contrasti sembrano riguardare principalmente le differenziazioni regionali nell’ambito dell’istruzione, e in particolare la possibilità di prevedere differenziazioni retributive nominali fra i docenti operanti in regioni diverse.
Il contrasto potrebbe forse essere superato prevedendo delle misure in grado di stimolare un aumento dell’occupazione regolare nelle regioni del Mezzogiorno, che nel lungo periodo potrebbe comportare un aumento significativo delle entrate fiscali e contributive nelle regioni del Sud dell’Italia, e quindi una riduzione dei trasferimenti dalle regioni del Nord. Da molti anni diversi economisti e prestigiose istituzioni internazionali (per esempio, Alesina, Danninger e Rostagno, 2001; Alesina e Giavazzi 2011; Bodo e Sestito 1991; Boeri 2019; Boeri, Ichino, Moretti e Posch, 2018 e 2019; Del Monte 1991; Ichino, Boeri e Moretti 2016; OECD 2002) hanno messo in evidenza come un significativo aumento dell’occupazione regolare nel Mezzogiorno possa essere stimolato da una riduzione del costo del lavoro per le imprese nelle produzioni a mercato internazionale localizzate nel Mezzogiorno, e/o da un aumento delle retribuzioni dei lavoratori impiegati in queste attività rispetto alle retribuzioni ottenibili nei settori protetti dalla concorrenza internazionale, e in particolare nel pubblico impiego. In questa prospettiva potrebbe essere utile considerare l’opportunità di mantenere costanti per almeno un decennio le retribuzioni nominali dei dipendenti pubblici nelle regioni del Mezzogiorno, utilizzando le risorse così risparmiate per sgravi fiscali e contributivi per i lavoratori impiegati al Sud in attività esposte alla concorrenza internazionale. In questo modo si potrebbe avere sia una diminuzione del costo del lavoro nelle produzioni a mercato internazionale localizzate nel Mezzogiorno, a parità di retribuzioni percepite dai lavoratori, sia una diminuzione nel Mezzogiorno delle retribuzioni percepite nel settore pubblico rispetto a quelle percepite nelle produzioni esposte alla concorrenza internazionale[3].
[1] Secondo le stime di Staderini e Vadalà (2009), la spesa pubblica primaria media annua per abitante, inclusiva di spese per prestazioni sociali, altre spese correnti, e spese in conto capitale, è stata nel triennio 2004-2006 di 9.977 euro in Lombardia, 9.526 euro in Veneto, 10.959 euro in Emila Romagna, 10.554 euro in Calabria, 10.053 euro in Sicilia, 9.148 euro in Puglia, 9.214 euro in Campania; nello stesso periodo, le entrate pubbliche totali medie annue per abitante sono state 14.579 euro in Lombardia, 11.706 euro in Veneto, 13.475 euro in Emila Romagna, 6.475 euro in Calabria, 7.041 euro in Sicilia, 6.854 euro in Puglia, 6.839 euro in Campania. Secondo le stime di Giannola, Petraglia e Scalera (2018, p. 8), fra il 2003-2005 e il 2012-2014 il residuo fiscale medio annuo per abitante a prezzi 2010 è passato da -2.357 euro a -2.224 euro per le regioni del Sud, da – 2.883 a – 2.848 euro per le isole, da + 2.016 a +2.030 euro per il Nord-Ovest, da 1.787 a 1.836 euro per il Nord-Est dell’Italia.
[2] Secondo le stime dell’Istat riportate dalla Banca d’Italia (L’economia delle regioni italiane, vari anni), Il tasso di occupazione complessivo è pari a circa il 44% delle persone in età da lavoro nel Mezzogiorno e a circa il 67% nel Nord dell’Italia. I lavoratori irregolari sono circa l’11% del totale occupati nel Nord dell’Italia, e circa il 20% nel Mezzogiorno. Il bassissimo tasso di occupazione regolare nel Sud dell’Italia deriva dalla forte carenza di competitività delle produzioni a mercato non esclusivamente locale.
[3] Gli effetti perversi per la competitività del Mezzogiorno di retribuzioni nel settore pubblico significativamente più elevate che nei settori esposti alla concorrenza sono stati evidenziati da Del Monte (1991) e da Alesina, Danninger e Rostagno (2001). Più in generale, Dornbusch (1973) aveva messo in evidenza l’importanza del rapporto tra retribuzioni nei settori a mercato locale e retribuzioni nei settori esposti alla concorrenza internazionale per l’equilibrio competitivo internazionale. Gli effetti positivi di natura non soltanto economica, ma anche, e soprattutto, di natura politica e sociale, di un aumento delle opportunità di lavoro sono state evidenziate magistralmente da Amartya Sen (1997).
References
Alesina A, Danninger S., Rostagno M., (2001), Redistribution Through Public Employment: The Case of Italy, IMF Staff Papers, Vol. 48, No. 3.
Alesina A., Giavazzi F., 2011, Dieci proposte (a costo zero) per dare una scossa all’Italia, Corriere della sera, 24 ottobre.
Bodo G., Sestito P. (1991), Le vie dello sviluppo, dall’analisi del dualismo territoriale una proposta per i Mezzogiorno, il Mulino, Bologna,1991.
Boeri T. (2019), Se il Nord si sente tradito, Repubblica, 17 luglio.
Boeri T., Ichino A., Moretti E. Posch J., 2019, Wage Equalization and Regional DisallocationEvidence from Italian and German provinces, Centre for Economic Policy Research.Boeri T., Ichino A., Moretti E. Posch J., 2018, Wage Rigidity and Spatial Misallocation: Evidence from Italy and Germany, mimeo.
Del Monte A. (1991), Fallimenti del mercato e fallimenti del governo: quale politica per il Mezzogiorno?, Meridiana, n. 11-12.
Dornbusch R. (1973), Devaluation, Money, and Nontraded Goods, The American Economic Review, Vol. 63, n. 5.
Giannola A., Petraglia C., Scalera D. (2018), Residui fiscali, bilancio pubblico e politiche regionali, Economia pubblica, marzo.
Ichino A., Boeri T., Moretti E. (2016), Divari territoriali e contrattazione: quando l’eguale diventa diseguale, presentato da Andrea Ichino il 5 giugno 2016 al festival dell’economia di Trento.
OECD (2002), Economic Surveys: Italy, OECD, Paris.
Sen A. (1997), The Penalties of Unemployment”, Banca d’Italia, Servizio studi, Temi di discussione.
Staderini A., Vadalà E. (2009), Bilancio pubblico e flussi redistributivi interregionali: Ricostruzioni e analisi dei residui fiscali nelle regioni italiane, in Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, novembre.