Da alcuni anni la Commissione europea elabora alcuni indicatori di competitività delle regioni europee[1]. La nozione di competitività utilizzata é analoga a quella adoperata da diversi anni dal World Economic Forum[2], che fa riferimento all’insieme delle istituzioni, delle politiche e dei fattori che determinano il livello di produttività di un paese o di una regione, e quindi alla capacità di generare redditi alti e crescenti e migliorare il tenore di vita degli abitanti, offrendo un ambiente attraente e sostenibile per le imprese e i cittadini. Si tratta di una nozione di competitività che mira a contemperare gli obiettivi delle imprese con quelli delle famiglie, cercando di fornire un indicatore più significativo del prodotto interno per abitante. Si tratta di una nozione di competitività diversa da quella generalmente utilizzata in economia internazionale, che fa riferimento alla capacità di un paese di vendere i suoi prodotti, e quindi indirettamente il suo lavoro, sui mercati internazionali. La differenza fondamentale fra queste due nozioni di competitività sembra essere che quella utilizzata in economia internazionale tiene conto sia della produttività sia del prezzo dei fattori produttivi, e in particolare del lavoro. Di conseguenza anche un paese con un basso livello di produttività, e quindi poco competitivo dal punto di vista degli indici del World Economic Forum, può essere molto competitivo sui mercati internazionali, se la sua bassa produttività é più che compensata da prezzi più bassi dei fattori produttivi non trasferibili, e in particolare del lavoro.
In particolare, nello studio della Commissione europea vengono stimati i valori per le diverse regioni europee di 11 indicatori elementari di competitività che riguardano le istituzioni, la stabilità macroeconomica, le infrastrutture, la sanità, l’istruzione di base, l’istruzione superiore e continua (lifelong learning), l’efficienza del mercato del lavoro, la dimensione del mercato, il livello tecnologico, la complessità del sistema delle imprese, la capacità innovativa. I valori di questi 11 indicatori elementari vengono poi utilizzati per costruire un indice sintetico di competitività.
Nella tabella 1 sono riportati i valori di questi indicatori stimati dalla Commissione europea per la Calabria, per altre tre grandi regioni del Mezzogiorno (Sicilia, Puglia e Campania), per la Lombardia, la regione italiana più competitiva, e per la media dell’Unione europea, con riferimento al 2016. Nelle ultime tre righe della stessa tabella sono inoltre riportati i valori di altri tre indicatori: il prodotto interno lordo per abitante, il tasso di occupazione complessivo (numero di persone occupate per ogni 100 persone in età da lavoro), e il tasso di occupazione industriale (numero di persone occupate in attività industriali per ogni 1.000 abitanti.
L’indice sintetico di competitività elaborato dalla Commissione europea per il 2016[3] , riportato nella prima riga della tabella 1, evidenzia valori sostanzialmente analoghi per la Calabria e le altre tre grandi regioni del Mezzogiorno: soltanto 6 punti separano il valore minimo stimato per la Sicilia (15) da quello massimo stimato per la Campania (21). Il valore stimato per la Lombardia (53) supera invece di ben 32 punti il valore della Campania. Queste stime sembrano smentire la visione di un Mezzogiorno significativamente diversificato al suo interno; particolarmente deludente appare il valore dell’indice di competitività della Puglia, una regione spesso ritenuta relativamente più efficiente nella gestione dei fondi europei.[4]
L’analisi degli indici elementari di competitività evidenzia per tutte e quattro le regioni del Mezzogiorno considerate nella tabella 1 una distanza fortissima rispetto alla Lombardia e alla media dell’Unione europea soprattutto dal punto di vista dell’efficienza del mercato del lavoro, con valori dell’indice compresi fra un minimo di 6 per la Calabria e un massimo di 10 per la Sicilia, a fronte di valori “normali” di 61 per la Lombardia e 60 per la media dell’Unione Europea. Le conseguenze della grave inefficienza del mercato del lavoro nelle regioni del Mezzogiorno sono evidenziate dagli indicatori riportati nelle ultime tre righe della tabella 1. In particolare, l’inefficienza del mercato del lavoro si riflette in primo luogo sulle attività produttive a mercato non esclusivamente locale, e in particolare sulle attività industriali; l’ultima riga della tabella 1 evidenzia un numero di occupati nell’industria per ogni 1.000 abitanti compresi fra 20 in Calabria e Sicilia e 45 per la Puglia, a fronte di un valore di 114 per la Lombardia[5]. Il bassissimo tasso di occupazione industriale nelle regioni del Mezzogiorno, provocato principalmente dalla inefficienza del mercato del lavoro, si riflette, in misura amplificata per effetto del moltiplicatore keynesiano, in un basso tasso di occupazione complessivo e in un basso valore del prodotto interno per abitante. La debolezza del settore industriale influenza negativamente anche altri indicatori elementari di competitività, e in particolare il livello tecnologico, la complessità del sistema delle imprese e la capacità innovativa. Ciò perchè è proprio l’industria, e in particolare quella manifatturiera, il settore in cui più rilevanti sono le opportunità innovative e di progresso tecnologico.
[1] Commissione europea, Indice di competitività regionale 2016, Indice di competitività regionale 2013, Indice di competitività regionale 2010.
[2] World Economic Forum, The Global Competitiveness Report 2016-2017.
[3] Commissione europea, Indice di competitività regionale 2016.
[4] I valori stimati dell’indice sintetico di competitività per le altre regioni del Mezzogiorno, non riportati nella tabella 1, sono 21 per la Sardegna, 24 per la Basilicata, 30 per il Molise, 33 per l’Abruzzo. La progressione di questi indici sembra evidenziare una significativa relazione inversa fra il valore dell’indice sintetico di competitività per le diverse regioni del Mezzogiorno e la loro distanza dalla Lombardia!
[5] Spesso viene evidenziato il fatto che l’occupazione pubblica rappresenta nelle regioni del Mezzogiorno una percentuale dell’occupazione complessiva particolarmente elevata. Più in generale, però, l’anomalia del Mezzogiorno riguarda non soltanto il peso eccessivo dell’occupazione pubblica, ma il fatto che gran parte dell’occupazione del Mezzogiorno é in settori, pubblici o privati, a mercato esclusivamente locale, e quindi protetti dalla concorrenza esterna.